da ResearchItaly
27 Luglio 2014
Per l'art. originale copia/incolla qui:
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https://www.researchitaly.it/conoscere/progetti-e-storie-di-successo/interviste-e-testimonianze/stato-vegetativo-risveglio-possibile-le-novita-dalla-ricerca-italiana/
Neurobiologia e trattamento dei disordini della coscienza è l’argomento dello “speciale” pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Current Pharmaceutical Design con il coordinamento editoriale di Francesca Pistoia, ricercatrice presso il dipartimento di Neurologia dell’Università de L’Aquila e presso l’Unità di Neuroriabilitazione ad Alta Intensità (UNAI) del San Raffaele Cassino, che ospita pazienti con gravi lesioni cerebrali in coma, in stato vegetativo e in stato di minima coscienza.
Lo special issue affronta in particolare gli aspetti farmacologici del trattamento dei pazienti in stato vegetativo, facendo il punto sui risultati conseguiti dal gruppo di ricerca di Cassino, diretto dal neurofisiopatologo Marco Sarà (nella foto), responsabile del reparto di Neuroriabilitazione di Alta Specialità, che abbiamo intervistato.
Dottor Sarà, in sintesi, quali sono le novità dalla ricerca sui disordini di coscienza che presentate nello speciale?
Il concetto chiave, e che ritengo sia anche il più intrigante, riguarda il ruolo dei sistemi inibitori nella genesi della consapevolezza di ciò che avviene e nella capacità di immaginare. Intuitivamente siamo portati a considerare un fenomeno come la coscienza il risultato di una “attività”, l’accensione di qualcosa nel cervello (localizzata o diffusa che sia) di specifico e “unico” della coscienza. Se permette un’analogia sarebbe come progettare auto sportive dimenticandosi di aggiornare l’impianto frenante in modo proporzionale alle maggiori performance del motore ecc. Come abbiamo già avuto occasione di raccontarci, quando noi vediamo una cosa si “accendono” le aree della visione più una serie di altre aree, ma se immaginiamo la stessa cosa viene fuori qualcosa di davvero interessante: si accendono le aree della vista ma ne vengono inibite una grande quantità di altre. E’ come se il campo visivo della coscienza fosse più ristretto della visione “passiva” di qualcosa. Molti anni fa mi venne il seguente aforisma: l’uomo è una creatura provvista di un cervello capace di elaborare in parallelo una quantità enorme di cose eppure riesce a pensare ad una/due la volta. Nell’esperienza clinica era sempre più ovvio che i pazienti con SV o MCS quasi mai hanno bisogno di stimoli ma piuttosto di “spazio silenzioso intorno a loro”. Insomma per essere consapevoli di “A” dobbiamo inibire molte altre lettere almeno per un po’. Questo Special Issue ha il pregio di averci raccolti in parecchi intorno alla riflessione sul ruolo dei farmaci e, in particolare, cercare di confrontarci sul fatto che alcuni soggetti rispondono con farmaci “eccitanti” ed altri a farmaci “inibitori” come lo zolpidem (che è un sonnifero) oppure “addormentando il midollo spinale” o, ancora, farmaci antiparkinsoniani!
Dunque, mi sembra di capire che c’è una estrema variabilità fra i pazienti, cioè sono molto diversi fra loro…
Sì, questi pazienti non sono diversi fra loro soltanto per la distribuzione delle lesioni ma anche per la risposta ad una terapia piuttosto che un’altra. Insomma è ovvio che (pur esitando in una non-responsività) hanno situazioni patologiche sottostanti molto diverse fra di loro! So bene che c’è chi è più affezionato a pensare ad una “malattia della coscienza in sé” ma non è quasi mai così. Ne viene fuori che, accanto alla scuola “integrativa”, che enfatizza gli aspetti relativi all’interconnesione fra aree cerebrali distinte (un approccio che ci ha permesso di formulare un metodo prognostico robusto già ormai da diversi anni), nasce adesso un nuovo modo di vedere questa condizione e che tenta di rispondere alla seguente domanda: perché il cervello non riesce a “convergere” la sua attività e inibire quella superflua / disturbante? In altri termini, nella terapia abbandoniamo il concetto della connettività e riprendiamo quello della multi-localizzazione delle lesioni appena descritto.
In che modo è possibile “recuperare” questi pazienti, almeno in parte?
Per punti:
1) È indispensabile comprendere la costellazione di lesioni caratteristica di quel paziente e quindi agire di conseguenza. In altri termini il primo errore da non fare è la prima cosa giusta che si può fare: evitare di uniformarli, meno che mai riferendoci al concetto di non responsività (che mette insieme dormienti, comatosi, locked-In, Stati Vegetativi e Minimally Conscious State e pazienti sotto l’effetto di anestetici, il piccolo male e via dicendo: creando ulteriore confusione).
2) Una volta individuata la “sottosindrome” trattarla se è possibile. E questo è realizzabile solo in una sottocategoria di soggetti al momento. Non esiste una cura dello Stato Vegetativo ma diversi approcci in situazioni particolari.
3) Per quanto ci riguarda ne abbiamo sperimentati direttamente (per la prima volta) due (infusione intratecale di baclofene e facilitazione corticomotoria) e adottiamo tutti quelli che ci è possibile realizzare per davvero.
4) Individuare al più presto i paziente con prognosi sfavorevole ed essere chiari con chi li ama (anche dire “non c’è nulla da fare” è compito del medico).
Gli “approcci” che lei descrive rappresentano soltanto metodiche d’avanguardia o sono già una realtà clinica ampiamente disponibile?
Assolutamente no: se ci pensa infatti, si tratta di una sorta di “passo indietro strategico”. Si era davvero andati oltre il buon senso con le teorie quantistiche, super-emergentistiche ecc. dal momento che l’obiettivo è quello di curare una patologia. Mi lasci aggiungere che nessuno ha mai definito esaustivamente cosa sia la coscienza; al momento rappresenta un ambito molto chic delle neuroscienze ma nulla di avente a che fare con il curare. La medicina pratica è invece “abituata” ad occuparsi di questioni delle quali ha una conoscenza parziale, a volte siamo bravissimi a risolvere problemi di cui pochissimo sappiamo e ci dimostriamo impotenti davanti a questioni apparentemente chiarissime. Di moltissimi farmaci non è ancora chiarito il meccanismo di azione, molte scoperte sono empiriche. Insomma la medicina non ha un corpus teorico unico e ben definito, come la fisica, intorno al quale si discute con vari approcci. La medicina è più una babele di approcci diversi, aree in cui vigono certezze ed altre sfumate e difficilissime da tenere a bada e rendere prevedibili. Per quanto riguarda la disponibilità siamo “a macchia di leopardo” sia a livello regionale che nazionale. I costi non sono enormi (quasi mai lo sono quelli del buon senso) ma enorme è il numero di filosofie diverse con cui queste problematiche vengono affrontate.
Interessante… Quanto costa – in termini di degenza, strumenti e personale specializzato – tenere in piedi una struttura riabilitativa di questo tipo?
Troppo, e non sono convinto che le diverse Regioni abbiano focalizzato la dimensione e la profondità della problematica.
Quante strutture in Italia offrono questo tipo di assistenza ai pazienti con disordini di coscienza?
Questa è la domanda più difficile che mi ha fatto. La sanità è di competenza regionale e quindi le “regole di ingaggio” sono molto diverse nella varie aree del Paese. Sono rimasto sorpreso dell’atteggiamento di alcune Regioni considerate “virtuose” perché stanno nel budget ma, sotto alcuni aspetti, sono molto sbrigative e presto si fa ad andare a finire in strutture residenziali. Spero che il Lazio, proprio in quanto fra gli ultimi a muoversi, dimostri di aver coscienza (appunto) dei molti modelli possibili e che sappia adottare quello più a vantaggio dei cittadini.
Relativamente al suo ambito di interesse medico e scientifico, come valuta la ricerca italiana rispetto all’Europa e al resto del mondo?
La ricerca italiana, nonostante la politica, tiene duro e si continua a distinguere. Mi lasci aggiungere una considerazione sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”: sta diventando così un luogo talmente comune da essere soffocante. In questa fase storica quello che mi preoccuperebbe di più è l’eventuale “ritorno dei cervelli”; se prima non riusciamo a contenere familismi e clientelismi, temo più per quelli che tornano rispetto a quelli che partono. In ogni caso, della ricerca si beneficia in tutto il mondo in termini di risultati ma limitatamente al campo medico e poco altro. Brevetti ed altre “perle” non penso stiano mordendo il freno per tornare in Italia.
In ultimo, ci spiega che cosa si intende per ricerca traslazionale e perché è così importante nel vostro campo?
La ricerca traslazionale è quella più “vicina al letto dell’ammalato” e quindi caratteristica dei luoghi dove si cura e si studia come curare.
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