Neurofenomenologia/F.Varela


Una soluzione metodologica al "problema difficile" 
Neurofenomenologia 

Questo saggio replica alle questioni sollevate da David Chalmers offrendo una direzione di ricerca abbastanza radicale per il modo di collegare i principi metodologici agli studi scientifici sulla coscienza. "Neurofenomenologia" è la denominazione che uso in questa sede per designare la ricerca di una maniera per sposare la moderna scienza cognitiva con un approccio rigoroso all’esperienza umana, ponendomi così lungo la linea della tradizione filosofica europea della fenomenologia. 

L’uso di "neuro", inteso qui come un nom de guerre: è stato scelto in contrasto esplicito all’uso corrente di "neurofilosofia", che riduce tout court la filosofia alla filosofia angloamericana della mente. Inoltre "neuro" si riferisce qui a tutta la serie di correlati scientifici che sono rilevati nella scienza cognitiva. Tuttavia non sarebbe molto pratico parlare di "fenomenologia neuro-psico-evolutiva". 

Io sostengo che il "problema difficile" può essere affrontato in maniera produttiva solo se si raccoglie una comunità di ricercatori forniti di nuovi strumenti pragmatici per lo sviluppo di una scienza della coscienza. Inoltre sono convinto che in questa fase non saranno di alcun ausilio concreto né correlati empirici frammentari, né principi puramente teorici. Occorre invece volgerci a un’esplorazione sistematica dell’unico legame fra mente e coscienza che appare al tempo stesso ovvio e naturale: la struttura della stessa esperienza umana. 

In quanto segue motiverò la mia scelta esaminando rapidamente il dibattito in corso sulla coscienza alla luce del "problema difficile" posto da Chalmers; poi tratteggerò la strategia (neuro) fenomenologica; in conclusione discuterò alcune delle maggiori difficoltà e conseguenze di questa strategia. 

Una cartografia di approcci

L’enigma dell’esperienza 

Chalmers inaugura la discussione del "problema difficile"[1] concentrandosi su quello che sembra centrale: l’esperienza associata a eventi cognitivi e mentali. "Talvolta al riguardo si usano anche termini come ‘coscienza fenomenica’ e ‘qualia’, ma trovo più naturale parlare di ‘esperienza cosciente’ o ‘esperienza’ tout court" [Chalmers, 1995, p. 201]. 

Dopo aver descritto i case studies di alcune spiegazioni diffuse di tipo funzionalista, Chalmers passa a identificare la sfida ulteriore con la necessità di un qualche "ingrediente in più". Già la scelta del termine è indicativa, dal momento che il suo assunto di partenza è che l’unica strada percorribile sia quella di trovare dei principi teorici in grado di colmare il divario fra cognizione ed esperienza. 

Come spiegherò in dettaglio più avanti, un’altra alternativa fondamentale sembra quella di modificare l’intero quadro in cui è posta la questione. In ogni caso "la morale di tutto ciò è che non si può spiegare l’esperienza cosciente a buon mercato" [ivi, 1995, p. 208].Concordo in pieno, ma mi affretto ad aggiungere che il prezzo da pagare è più alto di quanto la maggior parte delle persone sia disposta ad ammettere. 

Di nuovo, la difficoltà centrale è che l’esperienza "non è un postulato di tipo esplicativo, ma un explanandum a tutti gli effetti, dunque non è un candidato all’eliminazione (riduzionista)" [ivi, 1995, p.209]. Ciò che serve, conclude Chalmers, è una forma di spiegazione non-riduzionista. Anche qui mi trovo d’accordo con lui, ma in questo saggio mi riprometto di spiegare quanto divergano le nostre posizioni da questo punto in poi. 

Comincerò mettendo a fuoco daccapo la questione dell’esperienza nell’ambito dell’enorme espansione che sta conoscendo lo studio scientifico della coscienza. Come infatti sappiamo tutti, la quantità di libri, articoli e convegni su tale argomento è cresciuta in maniera esponenziale negli ultimissimi anni. 

Ma a che cosa è dovuta questa brusca inversione di tendenza, dopo anni di silenzio in cui la coscienza era una faccenda scomoda persino all’interno della scienza cognitiva? A dire il vero, era inevitabile che al predominio dell’impostazione comportamentista subentrasse una fase di assestamento, prima che la scienza cognitiva potesse sentirsi il terreno ben saldo sotto i piedi. 

Un altro fattore, forse anche più importante, era probabilmente dovuto allo stile che dominava la filosofia della mente negli Stati Uniti (con numerosi seguaci anche in Europa) e che ha guardato sempre con diffidenza l’esperienza soggettiva. 

In questo quadro generale gli sviluppi significativi nella scienza cognitiva sono dovuti quasi esclusivamente all’orientamento cognitivista-computazionale o a quello connessionista. Il connessionismo in particolare ha reso possibile un’idea rivoluzionaria, quella delle tradizioni e dei ponti fra livelli esplicativi, più nota come "filosofia dell’emergenza": la maniera in cui regole locali possono dare origine a proprietà o oggetti globali in una casualità reciproca. Ciò ha fornito nuovo significato all’interfaccia tradizionale mente-corpo, facendo compiere notevoli passi avanti nella spiegazione di un buon numero di specifici fenomeni cognitivi (fra i più rilevanti dei quali si annoverano visione, movimento e memoria associativa). 

Tali sviluppi hanno creato i presupposti per il "problema difficile", in quanto hanno fatto apparire la coscienza come è priva di ogni rilevanza di tipo casuale. Lo si può osservare bene nel testo pionieristico di Ray Jackendoff, in cui la "mente fenomenologica" (ossia la coscienza considerata in quanto esperienza) è vista come proiezione di una "mente computazionale" (ossia di meccanismi cognitivi) dove ha luogo tutto quanto risulti legato alla casualità. Ecco perché l’unica conclusione a cui Jackendoff può giungere è che la coscienza "non serve a nulla" [1987, p. 26]. 

Parallelamente, poi, tecniche innovative per l’analisi su larga scala dell’attività celebrale e della neuropsicologia ci hanno permesso per la prima volta di porre in maniera diretta delle domande sperimentali sui correlati di aspetti cognitivi complessi in azione, come l’imagery mentale o le emozioni [vedi ad esempio Posner e Raichle, 1992; Mazoyer, 1995]. Gli esperimenti che confortano tali indagini "on line" non invasive sono particolarmente interessanti in quanto hanno condotto i ricercatori ad affrontare quesiti come: il resoconto soggettivo può essere preso alla lettera? di che cosa sono espressione i resoconti verbali? 

Queste sono domande sostanzialmente legate all’esperienza, le quali implicano già una revisione significativa del modo in cui le descrizioni dell’esperienza umana vanno affrontate nella ricerca empirica.Un giorno riusciremo a ricostruire pienamente la storia intellettuale di questo problema, con tutti i suoi cambiamenti di direzione. Eppure tutto ciò sa di déjà-vu, riportandoci alla mente le continue oscillazioni, fra i due estremi del rifiuto e dell’attrazione assoluta, nelle discussioni scientifiche sull’esperienza cosciente. Difficilmente le cose potrebbero stare diversamente, dal momento che ogni scienza della cognizione e della mente deve, prima o poi, fare i conti con la condizione ineludibile, secondo la quale non abbiamo alcuna idea di come potrebbe essere il mentale o il cognitivo al di fuori della stessa esperienza che ne abbiamo. 

Come ha osservato opportunamente John Searle nel suo contributo su questa enorme messe di studi, se c’è una fase di ricerca favorevole a teorie della mente strettamente materialiste, "[il filosofo] incontra delle difficoltà. Sembra sempre che si dimentichi qualcosa [...e] al di la delle obiezioni tecniche c’è un’obiezione assai più profonda [...che] si può porre in maniera abbastanza semplice: la teoria in questione ha tralasciato la mente, o alcuni tratti essenziali, come ‘coscienza’ o ‘qualia’ di contenuto semantico. [...Così] se dovessimo pensare alla filosofia della mente come a una persona, diremmo che è nevrotica, e che la sua nevrosi è quella di ripetere continuamente lo stesso modello di comportamento" (Searle, 1992, pp. 30-31). 

Concordo con la diagnosi di Searle tanto quanto dissento dalla cura che propone (su cui tornerò più avanti); ovviamente avremo bisogno di prendere alcuni provvedimenti radicali per compensare tale comportamento nevrotico. E’ esattamente ciò che intendo fare in questo articolo, lanciando una proposta che ad alcuni potrà apparire radicale; eppure nessun’altra misura meno drastica riuscirà a spezzare il circolo vizioso e a superare i tentativi di risolverlo con un ennesimo modello teorico e astratto. 

Un abbozzo di proposta su quattro assi


Per motivare la mia posizione il lettore dovrebbe ora rivolgere la sua attenzione alla figura, con i quattro assi che ritengo sintetizzino gli orientamenti essenziali nell’attuale sviluppo di discussioni sulla coscienza. Non va inteso come uno schema riepilogativo di tutti i vari punti di vista sull’argomento, ma come un’occasione per situarmi rispetto a coloro che hanno scritto estesamente (in genere libri) al riguardo negli anni più recenti. 

Lo schema comprende soltanto approcci naturalistici, vale a dire posizioni che, ognuna alla propria maniera, forniscono un collegamento operativo alla ricerca attuale nella scienza cognitiva. Ciò esclude almeno un paio di correnti abbastanza affermate: da un lato posizioni che assumono un atteggiamento tradizionalmente dualista (tipo Eccles), dall’altro quelle che propongono di andare a cercare nuovi fondamenti nella meccanica quantistica. Personalmente le ritengo entrambe estreme e non necessarie, perciò mi concentrerò su quelle basate in qualche maniera esplicita sulla neuroscienza e sulla scienza cognitiva attuali. 

All’estrema destra ho messo la tendenza, di vasta risonanza, ben rappresentata da P. Churchland, ma che include anche F. Crick e C. Koch; essa è vicina alla filosofia spontanea di molti altri miei colleghi attivi nel campo della neuroscienza ed è appropriatamente denominata neuroriduzionismo o eliminativismo. Come si sa, questa concezione cerca di risolvere il "problema difficile" eliminando il polo dell’esperienza a favore di una qualche forma di spiegazione neurobiologica a cui sarà affidato il compito di generarla [Churchland e Sejnowski, 1992]. Ovvero, per dirla con la tipica rudezza di Crick: "Non sei che un ammasso di neuroni" [1994, p.2]. 

Al centro, un po’ in alto, ho raccolto varie posizioni che si possono definire funzionaliste, e identificate da Chalmers [1995, pp. 204-09] come l’ecologia di idee più popolare e attiva al momento. Il funzionalismo è stata l’opzione di gran lunga preferita nella scienza cognitiva per gli ultimi venti anni, seguita dalla strategia di sostituire il legame fra la cognizione e i suoi stati intenzionali o funzionali corrispondenti. Nel migliore dei casi il problema della coscienza è equiparato a quello dei "qualia" per taluni tratti di stati mentali. Così la nozione di esperienza viene assimilata a forza a quella di comportamento cognitivo, atteggiamento proposizionale o ruolo funzionale. 

Queste concezioni comprendono numerose proposte ben sviluppate, fra cui il "meccanismo proiettivo" di R. Jackendoff [1987], lo "spazio di lavoro globale" di B. Baars [1988], le "versioni molteplici" di Dennet [1991], le "macchine darwiniane" di W. Calvin [1990] o il "darwinismo neutrale" di G. Edelman [1989].La struttura di fondo in tutte queste proposte è abbastanza simile: si parte dapprima dalle unità modulari delle capacità cognitive (vale a dire i "problemi facili") e poi si costruisce un quadro teorico per accordarle, in modo che la loro unità sfoci in una spiegazione dell’esperienza. La strategia per ricollegare questa unità emergente e l’esperienza stessa può variare, ma in genere rimane vaga dal momento che tutto poggia quasi interamente su un approccio in terza persona, o esternalista, per ottenere i dati e convalidare la teoria. Tale posizione sembra la più diffusa attualmente nella scienza cognitiva, e rappresenta il lavoro di un buon numero di ricercatori. La sua popolarità si fonda sull’accettazione della realtà dell’esperienza e della vita mentale, pur mantenendo i metodi e le idee all’interno del quadro conosciuto della scienza empirica. 

Torniamo allo schema. Ancora al centro, ma in basso, abbiamo l’immagine speculare del funzionalismo: i rassegnati al "mistero" della coscienza, come T. Nagel [1984] e C. McGinn [1991], cercano di dimostrare, a partire da alcuni principi, che il "problema difficile" non è risolvibile, proprio sulla base della limitazione intrinseca dei mezzi attraverso i quali acquisiamo conoscenza del mentale. 

Infine, sulla sinistra, ho messo il settore che mi interessa maggiormente. Esso può essere descritto sommariamente come quello che dà un ruolo esplicito e centrale ai resoconti in prima persona e alla natura irriducibile dell’esperienza, pur rifiutando al contempo qualunque concessione al dualismo qualsiasi abbandono pessimistico alla questione, come fanno quelli che si sono rassegnati al "mistero". 

Ciò è in sintonia con l’individuazione operata da Chalmers del luogo in cui si situa il "problema più difficile". Analogamente agli altri orientamenti nel mio schema, anche questo gruppo è misto, annoverando al suo interno personalità eterogenee come M. Johnson [1987] e G. Lakoff, per il loro contributo alla semantica cognitiva; J. Searle, per le sue idee sull’irriducibilità ontologica [1992]; G. Globus per il cervello "postmoderno" [1995]; nonché, ai margini, "l’equilibrio riflessivo" di O. Flanagan [1992] e la proposta dello stesso Chalmers, sviluppata appieno nel suo ultimo libro [1996]. 

Ciò che è interessante in questo gruppo eterogeneo, in cui mi ritrovo io stesso, è che, nonostante vi sia un interesse comune per l’esperienza in prima persona come fatto fondamentale da inserire nel futuro della disciplina, sono evidenti le differenze nel modo di prendere in considerazione questa esperienza. 

L’approccio fenomenologico è fondato su un particolare procedimento di esplorazione dell’esperienza che è al centro della mia proposta. Spero che questo possa chiarire a sufficienza il contesto delle mie idee all’interno del panorama attuale. Adesso possiamo passare al cuore del problema, ossia alla natura della codeterminazione tra un’analisi in prima persona e un’analisi esterna dell’esperienza umana, il che descrive la posizione fenomenologica in fertile dialogo con la scienza cognitiva. 

Un approccio fenomenologico 

Irriducibilità: il terreno di base 

L’approccio fenomenologico prende le mosse dalla natura irriducibile dell’esperienza cosciente: l’esperienza vissuta è ciò da cui partiamo. La maggior parte degli autori contemporanei non sono propensi a concentrarsi sulla distinzione fra vita mentale intesa in qualche senso generale ed esperienza, oppure manifestano addirittura delle perplessità sulla possibilità di distinguere tali ambiti. 

Dal punto di vista fenomenologico la nozione di esperienza cosciente non va affatto d’accordo con quella di contenuto mentale come figura nella filosofia angloamericana della mente. La tensione fra questi due orientamenti emerge in maniera abbastanza evidente nel testo di Dennett, dove egli sostiene senza troppa fatica (una quindicina di righe in un tomo di 550 pagine) il fallimento della fenomenologia: "Come altri tentativi di spogliarsi dell’interpretazione e rivelare i fatti elementari della coscienza all’osservazione rigorosa quali il movimento impressionistico nelle arti e le psicologie introspezioniste di Wundt, Titchener e altri, la fenomenologia non è riuscita a trovare un unico metodo ben stabilito su cui tutti siano d’accordo" [1991, tr. It. 1993, p. 56]. 

Si tratta di un brano rilevatore: Dennett mischia elementi diversi facendo un unico fascio di impressionismo e di introspezionismo, confonde quest’ultimo con la fenomenologia, con cui invece non ha nulla da spartire e infine trae la propria conclusione dall’assenza di un qualche tipo idilliaco di accordo universale in grado di confermare il tutto. 

Di certo non esigeremmo "che tutti siano d’accordo", poniamo, sul darwinismo, per farne un programma di ricerca assai utile. E di sicuro alcune persone converrebbero sulla possibilità concreta di un esame rigoroso dell’esperienza umana. In un libro che sotto molti aspetti è così utile e ricco di intuizioni, questa ignoranza dimostrata a proposito della fenomenologia è un sintomo che la dice lunga su quello che non va in questo campo. 

La questione principale da mettere in rilievo è stata posta con chiarezza da Searle: "una parte considerevole del fallimento che si può riscontrare nella maggioranza del lavoro svolto in filosofia della mente [...] nell’ultimo cinquantennio [...] deriva da un continuo fallimento nel riconoscere e accettare il fatto che l’ontologia del mentale è un’ontologia irriducibilmente in prima persona. [...] In breve, non possiamo in alcun modo immaginarci la soggettività come parte della nostra visione del mondo perché, per così dire, proprio la soggettività in questione è la capacità stessa di immaginare" [Searle, 1992, p. 95 e 98]. 

Ma in questa difesa dell’irriducibilità della coscienza si avverte un’incapacità di giungere a una conclusione su come risolvere il problema epistemologico relativo allo studio della coscienza. Egli vuole farci accettare il fatto che "l’irriducibilità della coscienza è una mera conseguenza della pragmatica delle nostre pratiche definitorie" [ivi, p. 122] e che tale irriducibilità è una "prova definitiva" [ivi, p. 97]. Il mentale non ha alcuna maniera evidente di studiare se stesso e perciò rimaniamo con una conclusione chiara dal punto di vista della logica, ma in limbo dal punto di vista pragmatico e metodologico. 

Non è diversa la situazione nel caso di Jackendoff: anch’egli sostiene per proprio conto l’irriducibilità della coscienza ma significativamente tace quando si giunge a questioni di metodo. Egli rivendica il fatto che gli insight nell’esperienza agiscono come vincoli per una teoria computazionale della mente, ma a ciò non fanno seguito delle raccomandazioni metodologiche, fatta salva "la speranza che i disaccordi sulla fenomenologia si possano appianare in un’atmosfera di fiducia reciproca" [1987, tr. It. 1990, p. 275]. Proprio fiducia reciproca!? Quello che serve è invece un metodo rigoroso, ed è li che si trovano sia la difficoltà sia il potenziale rivoluzionario della questione. 

Metodo: muoversi in avanti 

Abbiamo bisogno di andare ad esaminare, oltre il fantasma della soggettività, le possibilità concrete di un’indagine rigorosa dell’esperienza che è davvero alla base dell’ispirazione fenomenologica. Mi ripeto: il progetto di fondamento della fenomenologia è costituito dalla riscoperta del primato dell’esperienza umana e dalla sua qualità diretta, vissuta. 

Questo è il senso con cui Husserl inaugurò in Occidente questo modo di pensare e stabilì una lunga tradizione, tutt’oggi viva e vegeta, e non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Difatti tra gli anni 1910 – 12, mentre Husserl era all’acme della sua fase creativa, negli Stati Uniti William James seguiva percorsi quasi paralleli nel suo approccio pragmatico alla vita cognitiva. E, tanto per completare la "sincronicità" planetaria di questa svolta, una ripresa estremamente innovativa dal punto di vista filosofico comparve in Giappone, con la cosiddetta scuola di Kyoto, avviata da Nishida Kitaro e proseguita da Nishitani Keiji e altri. 

Husserl e James si conoscevano e ognuno dei due leggeva le opere dell’altro; i membri della scuola di Kyoto hanno letto ampiamente la fenomenologia occidentale e hanno trascorso lunghi periodi di formazione in Germania. Perciò io credo che dovremmo considerarli anni mirabiles per la fenomenologia, allo stesso modo di quello che è stato il periodo 1848 – 52 per la nascita della biologia evoluzionistica moderna. 

E’ corretto dire che la fenomenologia è, più di ogni altro, uno stile di pensiero, promosso in Occidente da Husserl, ma che non si esaurisce nelle sue preferenze e nel suo approccio particolare [Lyotard, 1954]. Non voglio impegnarmi a fornire un resoconto sulla diversità e complessità della fenomenologia in Occidente [al riguardo, cfr. S piegelberg, 1962]. Il contributo di studiosi come Eugen Fink, Edith Stein, Roman Ingarden e Maurice Merleau Ponty, per citarne solamente alcuni, ne testimoniano lo sviluppo continuo. 

Più di recente, sono stati esplorati diversi collegamenti con la scienza cognitiva odierna [vedi ad esempio, Dreyfus, 1982; Varela, Thompson e Rosch, 1991; Klein e Westcott, 1994; Petitot, 1995; Petitot et al., 1996; Thompson e Varela, 1996]. Faccio tale considerazione esplicita perché ho osservato personalmente che la maggior parte delle persone senza una conoscenza approfondita del movimento fenomenologico sono portate automaticamente a credere che sia una sorta di derivazione scolastica da Husserl, una faccenda che è meglio lasciare a polverosi filosofi europei in grado di leggere il tedesco. 

Nel migliore dei casi chi si occupa di scienza cognitiva avrà letto il volume curato da Dreyfus nel 1982, dove si presentava Husserl come una specie di proto-computazionalista, e supporrà che questo sia tutto quello che c’è da sapere sulla fenomenologia. Questa è divenuta un’interpretazione citata spesso e volentieri, ma vari critici hanno dimostrato che questa lettura cognitiva di Husserl è molto discutibile. 

Non è questo il luogo per dilungarsi su tale problema, ma è essenziale almeno avvertire di come stiano realmente le cose, per evitare che il lettore aduso alla letteratura scientifica pensi che la faccenda sia stata risolta una volta per tutte (per una critica della lettura di Husserl operata da Dreyfus cfr. Langsdorf [1985], nonché le obiezioni di McIntyre [1986]; per un resoconto più recente di questa controversia, attraverso un contrasto fra Husserl e Foder, cfr. Roy [1995] ). 

La mia posizione non può essere ascritta ad alcuna scuola o derivazione specifica, ma rappresenta la sintesi della fenomenologia che ho elaborato io stesso alla luce della scienza cognitiva odierna e di altre tradizioni che si concentrano sull’esperienza umana. 

La fenomenologia può essere descritta anche come un particolare tipo di riflessione o un modo di pensare alla nostra capacità di essere consapevoli. La riflessione nel suo insieme rivela una varietà di contenuti mentali (atti mentali) e il loro orientamento correlato, ossia i contenuti intenzionali. Il modo di pensare naturale o ingenuo dà per scontati parecchi assunti impliciti o tradizionali, sia sulla natura di chi il soggetto di un’esperienza, sia sui suoi oggetti intenzionali. 

Il punto archimedeo della fenomenologia è di sospendere tali assunti abituali e di promuovere un’analisi di nuovo tipo, donde il nuovo slogan di Husserl "Torniamo alle cose stesse!" (Zurück zu den Sachen selbst!", all’inizio della prima parte del secondo volume delle Ricerche logiche [1900-01]), che per lui significava il contrario dell’oggettivazione in terza persona, un ritorno al mondo che viene esperito nella sua immediatezza percepita. 

La speranza di Husserl, così come l’ispirazione alla base della ricerca fenomenologica, era che si potesse stabilire gradualmente una vera scienza dell’esperienza, la quale non solo potesse stare alla pari con le scienze della natura, ma potesse anche fornire loro una base di cui avevano bisogno, dal momento che la conoscenza emerge necessariamente della nostra esperienza vissuta. 

Da un lato l’esperienza è soffusa di pre-comprensione spontanea, tanto da dare l’impressione che qualunque "teoria" su di essa sia del tutto superflua; ma dall’altro lato questa stessa pre-comprensione va esaminata, in quanto non è chiaro che tipo di conoscenza rappresenti. 

L’esperienza richiede un esame specifico per liberarla dal suo status di credenza abituale. Per dirla con Merleau-Ponty: "Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume "[1945, tr. it. 1965, p. 17]. 

Insisto perché in primo piano questo principio di base dell’approccio fenomenologico, dal momento che spesso invece si traduce superficialmente in una ricerca empirica di correlati mentali. Occorrerà tornare più volte su questo punto perché è unicamente apprezzando la profondità di questa distinzione che i ponti fenomenologici possono pretendere di mantenere un legame significativo con l’esperienza vissuta e di essere una soluzione per il "problema difficile". 

La fenomenologia fonda la sua tendenza a promuovere uno sguardo nuovo all’esperienza in un gesto di riflessione specifico: la riduzione fenomenologica (il lettore dovrebbe resistere alla tentazione si assimilare questo uso di "riduzione" a quello di "riduzione teorica", quale appare ad esempio neoriduzionista e ben articolato degli scritti di P. Churchland; dato che i due significati sono diametralmente opposti, è opportuno aggiungere qui un aggettivo qualificativo). 

Adesso devo svelare tutti i segreti di questo modo di pensare o gesto attraverso il quale si modifica la maniera abituale in cui dobbiamo metterci in relazione con i nostri mondi vissuti. Ciò non significa considerare un mondo differente, quanto piuttosto considerare diversamente quello attuale. Come dicevamo poc’anzi, questo gesto trasforma un’esperienza ingenua o non ancora esaminata in una riflessiva, o di secondo ordine. 

Giustamente la fenomenologia insiste su questo passaggio dal modo di pensare naturale a quello fenomenologico, giacché soltanto allora il mondo e la mia esperienza appaiono aperte e bisognose di esplorazioni. 

Il significato e la pragmatica della riduzione fenomenologica hanno assunto molte varianti che si dipartono da questo tronco comune, anche se non intendo riassumerle qui: una discussione recente sulle varietà di riduzione si può leggere in Bernet [ 1994, pp. 5-36]; la prima articolazione dello stesso Husserl si può trovare nelle lezioni che tenne all’Università di Gottinga dal 26 aprile al 2 maggio del 1907 e che hanno segnato un decisivo passo in avanti [Husserl, 1950]. Il gesto consapevole alla base della riduzione fenomenologica può essere suddiviso in quattro momenti, o aspetti, collegati fra loro. 

1. Atteggiamento: riduzione 

L’atteggiamento della riduzione è il punto di partenza imprescindibile. Può essere definito più specificatamente grazie alle sue analogie con il dubbio: un’improvvisa, transitoria sospensione di credenze rispetto a ciò che si sta esaminando, una messa in questione del nostro abituale discorso riguardo a qualcosa, un mettere tra parentesi la struttura preventiva che costituisce lo sfondo onnipresente della vita quotidiana. 

La riduzione è autoindotta (si tratta cioè di una pratica attiva), e punta a essere risolta (dissipando i nostri dubbi) poiché nel nostro caso costituisce una fonte di esperienza. Di solito si fa l’errore di credere che sospendere il nostro modo abituale di pensare significhi arrestare il flusso dei pensieri, il che non è possibile. Il punto è invece quello di invertire la direzione del movimento del pensiero, che abitualmente è orientato al contenuto, verso il sorgere dei pensieri stessi. Si tratta in realtà, ne più ne meno, che della prerogativa umana della riflessività, e della linfa vitale della riduzione. 

Impegnarsi nella riduzione significa esercitare una sistematica capacità di riflessione in tempo reale, aprendo così nuove possibilità all’interno del nostro consueto flusso mentale. Ad esempio, proprio in questo istante chi legge sta molto probabilmente facendo dei commenti interiori su cosa sia questa riduzione, a cosa possa essere assimilata, e così via. Per mettere in moto l’atteggiamento di riduzione si dovrebbe cominciare col prendere nota di questi schemi automatici di pensiero, lasciarli scorrere via, e rivolgere la riflessione verso la loro sorgente. 

2. Intimità: intuizione 

Il risultato della riduzione è che un campo di esperienza si rivela insieme meno ingombro e più vividamente presente, come dalla solita nebbia che separa la sperimentazione dal mondo. Come ha notato William James, l’immediatezza dell’esperienza appare così circondata da una molteplicità di orizzonti verso i quali possiamo deviare il nostro interesse.

Questo aumento di intimità col fenomeno è cruciale, poiché rappresenta la base del criterio di verità nell’analisi fenomenologica, la natura della sua evidenza. Se l’intimità o immediatezza è l’inizio di questo processo, esso prosegue con l’esercizio di variazioni immaginarie, prendendo in considerazione, nello spazio virtuale della mente, molteplici possibilità del fenomeno così come appare. 

Queste variazioni ideali ci sono familiari dalla matematica, ma nel nostro caso vengono messe al servizio di ogni aspetto su cui si focalizzi la nostra analisi: la percezione della forma tridimensionale, la struttura del momento presente, le manifestazioni di empatia, e così via. E’ attraverso queste molteplici variazioni che sorge un diverso grado di comprensione, un’esperienza di tipo "Ah, ecco!", accompagnata da una nuova evidenza che porta con sé una forza di convinzione. 

Questa palpabile intimità con la nostra esperienza corrisponde abbastanza a ciò che viene comunemente indicata come intuizione, e rappresenta, insieme alla riduzione, le due principali capacità umane che vengono utilizzate ed esercitate nella riduzione fenomenologica. 

3. Descrizione: invarianti 

Fermarsi a una riduzione seguita da variazioni immaginarie significherebbe condannare questo metodo a una constatazione puramente privata. Il passo seguente è altrettanto cruciale dei precedenti: l’aumento di evidenza intuitiva deve essere posto, tradotto in termini comunicabili, di solito attraverso il linguaggio o altre scritture simboliche (tipo schizzi o formule). 

D’altra parte la concreta esecuzione materiale di queste descrizioni costituisce a sua volta un aspetto integrante della riduzione fenomenologica e modella la nostra esperienza tanto quanto l’intuizione che le dà forma. In altre parole, non si tratta tanto di una "codificazione" in un documento pubblico, quanto di una "incarnazione" che dà corpo e modella ciò che sperimentiamo. 

Io considero queste descrizioni pubbliche come delle invarianti, poiché è attraverso le "variazioni" che si trovano le precise condizioni rispetto alle quali un’osservazione può essere comunicabile. Tutto ciò non è molto diverso da quello che i matematici fanno da secoli: la novità è che viene applicato al contenuto della coscienza. 

4. Addestramento: stabilità 

Come per ogni altra disciplina, la chiave è costituita da un addestramento prolungato e da una pratica costante. Un’episodica incursione nella coscienza è ben diversa da un sistematico esercizio della riduzione fenomenologica. Questo aspetto è particolarmente rilevante, dal momento che l’atteggiamento di riduzione è notoriamente fragile. Se non si coltiva l’abilità ad approfondire e stabilizzare la propria capacità di messa tra parentesi attenta e di intuizione, così come l’abilità a fornire descrizioni chiarificanti, nessuna ricerca sistematica può giungere a dare i suoi frutti. Quest’ultimo aspetto della riduzione fenomenologica che è forse l’ostacolo più grande alla costituzione di un programma di ricerca, poiché implica che una comunità di ricercatori si dedichi a un impegno indisciplinato. 



Riduzione fenomenologica 

aspetti del metodo                 caratteristiche dell’indagine conseguente 

Atteggiamento                              messa tra parentesi, sospensione delle credenze 

Intuizione                                      intimità, evidenza immediata 

Invarianti                                      trasposizioni simboliche, intersoggetività 

Addestramento                            stabilità, pragmatica 


Evitare alcune trappole consuete 

In altre presentazioni di queste idee mi sono trovato ripetutamente di fronte a una serie di incomprensioni e di conclusioni forvianti. Preferisco anticipare alcune delle trappole più comuni e occuparmene subito. 

L’analisi fenomenologica non è una semplice introspezione 

Come è stato sottolineato da molti, l’introspezione presuppone che noi possiamo avere accesso alla nostra esperienza nello stesso modo in cui abbiamo accesso al nostro campo visivo "interno", tramite un’ispezione, come suggerito dall’etimologia della parola. Una tale indagine interna è una normale capacità cognitiva di raddoppiamento riflessivo, un gesto in cui ci cimentiamo normalmente. Ciò presuppone un certo referente "Io" che compie l’autosservazione, una rete narrativa che modella ciò che noi identifichiamo come soggetto.

In epoca pre-fenomenologica (cioè senza riduzione) l’introspezione suscitò un’ondata di interessi in psicologia, a cominciare dai lavori di W. Wundt, seguito da altri ricercatori come E.B. Titchener negli Stati Uniti e dalla scuola di Wurzburg. A dispetto dell’entusiasmo iniziale, il programma di ricerca prospettato dall’introspezionismo non mise radici. Oltre a vari problemi, i protocolli dei diversi laboratori non riuscivano a raggiungere un comune terreno di convalida. Un caso classico era la questione se l’immaginazione visiva giocasse un ruolo nella risoluzione dei problemi oppure no. 

Il metodo impiegato si serviva inizialmente della riflessione, ma indicava delle direttive esplicite su cosa cercare e sul tipo di distinzioni da eseguire, proprio come ci siamo abituati a vedere nella moderna psicologia sperimentale. A poco a poco i protocolli risultarono inevitabilmente sempre più influenzati dai presupposti teorici delle ricerche, e di fatto degenerarono rapidamente in argomentazioni basate sull’autorità. Il resoconto storico fattone da Lyons [1986] è concepito come un necrologio dell’introspezione. Ma questa sarebbe una conclusione prematura, come ci ammonisce Howe [1991]. 

Per un fenomenologo questo modo di utilizzare le capacità riflessive ricade ancora nell’atteggiamento tradizionale, poiché procede sull’onda di assunzioni ed elaborazioni precostituite. La fenomenologia condivide con l’introspezione un interesse nel raddoppiamento riflessivo come mossa chiave del suo approccio ai fenomeni. Ma i due atteggiamenti si volgono in direzioni diverse. E’ a ragion veduta che nella riduzione fenomenologica l’abilità da mobilitare è chiamata "mettere fra parentesi", perché persegue appunto l’effetto opposto a quello di introspezione acritica: taglia corto con le nostre elaborazioni e credenze immediate e automatiche, in particolare individuando e mettendo in sospensione ciò che noi pensiamo di "dover" trovare o certe descrizioni "attese". 

Così la riduzione fenomenologica non è un "guardarsi dentro", ma piuttosto una libertà di giudizio relativa alla sospensione delle conclusioni, che lascia emergere un nuovo aspetto o un nuovo insight sul fenomeno da spiegare. Di conseguenza un’azione del genere non convalida la dualità fondamentale soggetto/oggetto, ma si apre a un campo di fenomeni in cui diventa sempre meno ovvio come distinguere tra soggetto e oggetto (questa è quella che Husserl ha chiamato "la correlazione fondamentale"). 

L’intuizione non è qualcosa di evanescente 

Molte persone reagiscono con sospetto quando si parla di intuizione. Nel nostro contesto le capacità intuitive non si riferiscono al fuoco fatuo di una qualche elusiva sorta di ispirazione. Si tratta, al contrario, di una fondamentale capacità umana che è costantemente all’opera nella vita quotidiana e che è stata ampiamente studiata in molte ricerche sulla creatività. Pensiamo ad esempio alla matematica: alla fin fine il peso decisivo di una dimostrazione, al di là della concatenazione logica del ragionamento simbolico, giace nella sua forza di convinzione, nell’immediatezza dell’evidenza con cui ci si impone. 

E’ questa la natura dell’evidenza intuitiva: non nasce dall’argomentazione, ma dalla creazione di una chiarezza che è totalmente convincente. Noi diamo per scontata questa nostra prerogativa, ma facciamo ben poco per svilupparla in termini sistematici. Naturalmente fra ragionamento e inferenza non si dà qui alcuna contraddizione: l’intuizione senza ragionamento è cieca, ma le idee senza intuizione sono vuote. 

Esiste una realtà al di là del dualismo di soggettivo/oggettivo 

Una delle caratteristiche principali dell’atteggiamento fenomenologico consiste nel cercare di non opporre il soggettivo all'oggettivo, ma di superare la loro dicotomia in nome della loro correlazione fondamentale. La riduzione fenomenologica ci dimostra subito evidente che la conoscenza è inestricabilmente collegata a ciò che va al di là di se stessa (in termini husserliani è "trascendentale"). La coscienza non è cioè una sorta di evento interno e privato, poiché alla base possiede lo stesso tipo di esistenza del mondo esterno, privo di coscienza.

Tanto per cominciare, l’analisi fenomenologica non è un mio "viaggio privato", poiché è concepita come indirizzata ad altri, attraverso una convalida intersoggettiva. In questo senso il proposito dell’atteggiamento fenomenologico non differisce radicalmente da quello di altre modalità di indagine. 

Analogamente, grazie all’evidenza empirica e intuitiva, possiamo facilmente convincerci che la nostra esperienza umana, la mia come la vostra, segue qualche fondamentale principio strutturale che, come lo spazio, impone la propria legge alla natura di ciò che ci è dato come contenuto di quell’esperienza. 

Attraverso la riduzione fenomenologica, la coscienza appare come un fondamento che fa luce su come possono sorgere in prima istanza delle nozioni derivate come quelle di soggettivo e oggettivo. Ecco perché in questo stile di indagine la nozione coscienza è radicalmente diversa da quella dell’empirismo angloamericano.Non abbiamo cioè a che fare con un’ispezione privata, ma con un ambito di fenomeni in cui il soggettivo e l’oggettivo, nonché il soggetto e gli altri, emergono naturalmente dall’applicazione del metodo e dal suo contesto. 

Questo è un punto che sfugge spesso ai riduzionisti e ai funzionalisti. L’esperienza è chiaramente un evento personale, ma ciò non significa che sia privato, nel senso di una sorta di soggetto isolato che viene paracadutato in un mondo oggettivo predeterminato. Una delle scoperte più importanti del movimento fenomenologico consiste nell’aver compreso rapidamente che un’indagine sulla struttura dell’esperienza umana induce inevitabilmente un cambiamento di prospettiva che prende in considerazione i diversi livelli per cui la mia coscienza è inestricabilmente collegata a quella degli altri e al mondo fenomenico in un coacervo empatico (vedi box "La riscoperta fenomenologica dell’empatia"). 

Di conseguenza, la tradizionale opposizione tra analisi in prima e terza persona è fuorviante. Ci induce a dimenticare che le cosiddette analisi obiettive in terza persona vengono in realtà eseguite da una comunità di persone concrete che si incarnano nel proprio mondo naturale e sociale grazie alle loro analisi in prima persona. 

Come acutamente si chiede B. C. Smith: "Chi c’è in terza persona?" [1996]. La linea di demarcazione tra rigore o meno, non va tracciata fra analisi in prima e terza persona ma va determinata piuttosto accertandosi se ci sia o meno un preciso terreno metodologico che conduca a una convalida in comune e a una conoscenza condivisa. 

È necessaria una pragmatica più sofisticata 

Nel complesso sono convinto che la neurofenomenologia costituisca una soluzione naturale che ci permette di superare il "problema difficile" nello studio della coscienza. Questa soluzione non ha niente a che fare con qualche "ingrediente in più" di tipo teorico o concettuale, per usare il termine di Chalmers. Si tratta piuttosto di riconoscere l’esistenza di una ignoranza pratica che può essere sanata. 

E’ chiaro inoltre che una tale soluzione possiede un potenziale rivoluzionario, come tutte le soluzioni scientifiche che riformulano radicalmente un problema in sospeso piuttosto che tentare di risolverlo all’interno del suo contesto originario. In altre parole, invece di cercare di trovare un "ingrediente in più" per spiegare come la coscienza emerga dalla materia e dal cervello, la mia proposta riformula il problema nei termini di un tentativo di trovare delle connessioni significative tra due irriducibili domini fenomenici. In questo senso specifico la neurofenomenologia rappresenta una soluzione potenziale del problema difficile perché getta una luce completamente differente sul significato di "difficile". 

Mi rendo conto di quanto sia penosamente insufficiente ciò che ho detto finora e ciò che è disponibile bibliograficamente (a parte i precoci tentativi di Ihde [1977], per ovviare a questa carenza). Questa rappresenta sia un sintomo sia una causa della relativa scarsità di contributi recenti sugli approcci fenomenologici al problema della mente. Il lettore non può essere biasimato se non è riuscito a farsi che una pallida idea di ciò che intendo quando cerco di sottolineare l’importanza del gesto di riduzione, che costituisce il nocciolo della soluzione metodologica che sto proponendo. 

E’ sorprendente quanto tale capacità di essere consapevoli sia stata profondamente trascurata in quanto pratica umana; è come se la capacità di movimento ritmico non avesse condotto a nessuno sviluppo dell’educazione alla danza. Come si sono resi conto da qualche tempo coloro che praticano le scienze cognitive [Vermersch, 1994], e come è confermato dalla tradizione centrata sulla presenza mentale di varie scuole buddhiste [Varela, Thompson e Rosch, 1991], una riflessione di ispirazione fenomenologica necessita di strategie per il proprio sviluppo. 

Rispetto a questa relativa povertà di elaborazione pragmatica posso solo dire che essa testimonia l’urgenza di una strategia di ricerca che vada a compensare questa enorme carenza. In un recente lavoro collettivo ho cercato di offrire il mio contributo sulla pratica della riduzione e sul suo insegnamento [Depraz, Varela e Vermersch, 1996]. In Occidente non c’è stato un pantheon molto ricco di individui dotati rispetto all’abilità fenomenologica (con notevoli eccezioni, come Husserl e James) e in grado di imporre all’attenzione della comunità i risultati delle proprie ricerche; di conseguenza questo percorso di indagine può suonare estraneo a molti lettori. 

Ma ciò che voglio dimostrare è che proprio questa assenza è alla base dell’oscurità della coscienza per la scienza contemporanea. Ciò di cui abbiamo bisogno sono proprio le "strutture che connettono" frutto della riduzione fenomenologica, poiché, se da una parte per l’esperienza esse sono immediatamente pertinenti (grazie alla loro natura intrinseca), nello stesso tempo esse sono sufficientemente intersoggettive da servire come controparti costruttive per l’analisi esterna. 

Una codeterminazione neurofenomenologica 

Case studies 

In questa terza parte vorrei delineare alcuni settori dell’esperienza e della vita mentale al fine di illustrare cosa potrebbe significare in pratica una codeterminazione neurofenomenologica. E’ superfluo notare che questi case studies non costituiscono una prova di ciò che sto proponendo, né tantomeno precludendo l’esame dettagliato di altri esempi più interessanti per il lettore. Inoltre in anni recenti si è avuto un gran numero di differenti ricerche in cui, pur rimanendo saldamente ancorati alla tradizione scientifica della neuroscienza cognitiva, la parte dell’esperienza vissuta è aumentata progressivamente di importanza fino al punto da entrare irreversibilmente in scena al di là di ogni specifico interesse per le analisi in prima persona [Picton e Stuss, 1994]. 

È ovvio che quanto più saranno sofisticati i metodi di visualizzazione cerebrale disponibili, tanto più avremo bisogno di soggetti dotati di una consolidata esperienza nell’esecuzione di discriminazioni e descrizioni fenomenologiche. Questo è certo un importante problema filosofico, ma è anche una concreta necessità empirica e pragmatica. Ecco di seguito una serie di casi illustrativi che toccano sia problemi generali sia specifici. 

1. Problemi generali 

L’attenzione può essere considerata uno dei meccanismi fondamentali per la coscienza [Posner, 1994]. In anni recenti le ricerche elettroencefalografiche e più specificatamente quelle di visualizzazione delle funzioni cerebrali hanno portato all’identificazione di reti e di percorsi in grado di fornire un terreno prezioso per distinguere eventi cognitivi coscienti da quelli inconsci. 

Si possono distinguere tre tipi di queste reti attenzionali che comportano rispettivamente 

l’orientamento verso la stimolazione sensoriale, 
l’attivazione degli schemi tratti dalla memoria 
e il mantenimento dello stato di allerta. 

Questi risultati indicano che i meccanismi attenzionali rappresentano una particolare serie di processi cerebrali che non sono localizzati in un ristretto numero di neuroni, ma che non sono neppure identificabili con l’insieme del cervello in funzione. Nello stesso tempo è chiaro che le distinzioni esperienziali tra queste diverse forme di attenzione richiedono una precisa indagine strutturale della varietà di modi in cui l’attenzione si manifesta nell’esperienza. 

Uno studio sistematico delle strutture e delle strategie dell’attenzione è ancora tutto da affrontare. Ma come è possibile esplorare i meccanismi neurali rilevanti per la coscienza senza che queste controparti esperienziali possano essere sufficientemente discriminate, riconosciute ed esercitate. 

Coscienza del tempo presente. La temporalità è inseparabile da qualunque esperienza, e questo a vari orizzonti di durata, dall’attualità del momento presente al lasso di tempo di una vita intera. Un livello di ricerca si occupa appunto dell’esperienza del tempo immediato, quell’esperienza del momento presente come tale che James (1890/1912) indicò con la felice espressione del "presente capzioso". 

Questo argomento è sempre stato un tema tradizionale delle ricerche fenomenologiche, attraverso la descrizione di una basilare struttura tripartita del presente con le sue costitutive infiltrazioni negli orizzonti del passato e del futuro, le cosiddette pretensioni e ritenzioni [Husserl, 1996; MacInerney, 1991]. In realtà queste invarianti strutturali non sono compatibili con la rappresentazione puntiforme continua del tempo lineare che abbiamo ereditato dalla fisica. Viceversa esse si riallacciano perfettamente a tutta una serie di risultati della neuroscienza cognitiva per cui esiste un tempo minimo necessario per l’emergenza di eventi neurali che si colleghino a un evento cognitivo [Dennet e Kinsbourne, 1992]. 

Questa struttura temporale non comprimibile può essere analizzata come la manifestazione di un’integrazione neuronale a lungo raggio nel cervello legata a una sincronia diffusa [Singer, 1993; Varela, 1995]. Questo collegamento getta luce sulla natura delle invarianti fenomenologiche attraverso una ricostruzione dinamica che è alla loro base, fornendo così al processo di sincronizzazione un tangibile contenuto esperienziale. Ho sviluppato altrove più diffusamente questo caso di determinazione neurofenomenologica [Varela, 1996]. 

Immagine corporea e movimento volontario. La natura della volontà come si manifesta nell’avvio di un’azione volontaria è inseparabile dalla coscienza e dalla sua esazione. Studi recenti mettono in risalto il ruolo dei correlati neurali che precedono e preparano l’azione volontaria, nonché il ruolo dell’immaginazione nell’esecuzione di un atto volontario [Libet, 1995; Jeannerod, 1994]. 

D’altra parte un’azione volontaria è preminentemente un’esperienza vissuta, una questione ampiamente esaminata nella letteratura fenomenologica – più specificatamente nel ruolo dell’incarnazione come corpo vissuto (corps propre [Merleau-Ponty, 1945]) e inoltre nella stretta relazione tra il corpo vissuto e il suo mondo (Leibhaftigkeit). 

Il dolore, ad esempio, costituisce un interessante "qualia" che rivela questa dimensione di incarnazione nel modo più vivo, e il suo studio fenomenologico ha prodotto intuizioni sorprendenti sia sull’immagine corporea che sui suoi collegamenti ai correlati neurofisiologici [Leder, 1991]. Anche in questo caso un’analisi fenomenologica dell’azione volontaria e dell’incarnazione corporea è stata finora sviluppata solo in parte, pur essendo essenziale. 

2. Problemi particolari 

Il completamento percettivo, com’è utilizzato nella scienza della visione, comporta l’integrazione spontanea di un percetto in modo tale che l’apparenza (ad esempio un contorno visivo) si differenzi dal correlato fisico (ad esempio i margini discontinui come nel caso dei famosi contorni illusori). 

Questi problemi possono essere indagati anche a livello cellulare e sollevano ulteriori problemi relativi alla discriminazione esperienziale delle apparenze. Di fatto i dati neuronali sul completamento percettivo sembrano accordarsi bene con ciò che la riduzione fenomenologica ha accertato da vario tempo: c’è una profonda differenza tra "vedere come", l’apparenza visiva, e "vedere cosa", il giudizio visivo [Pessoa, Thompson e Noë, 1996]. Questa conclusione è agli antipodi di quella di Dennett [1991], per cui la coscienza è "tutte parole e niente immagini". Esistono problemi che possono essere risolti soltanto tramite una parallela convergenza tra le analisi esterne e quelle in prima persona. 

È interessante il fatto che varie ricerche siano tornate a prendere in considerazione alcuni tradizionali problemi fenomenologici come la struttura bipartita del campo di coscienza tra un centro e una periferia. Ciò deriva in gran parte dall’eredità di William James, ma viene convalidato nei protocolli di esame di un laboratorio moderno. In queste ricerche l’obbiettivo da mettere a fuoco e l’esperienza cruciale da esplorare sono rappresentati dalla sensazione di "correttezza" (rightness), che consiste in una sorta di complessiva integrazione cognitiva che a sua volta rappresenta il livello di armonizzazione tra il contenuto cosciente e il suo parallelo sottofondo inconscio (Mangan, 1993) 

Emozione. Gli ultimi anni hanno visto importanti progressi nella comprensione dei correlati cerebrali delle emozioni; la separazione tra ragionamento ed emozioni sta rapidamente scomparendo [Damasio, 1994; Davidson e Sutton, 1994]. 

L’evidenza sperimentale sottolinea l’importanza di strutture specifiche come l’amigdala, la lateralizzazione del processo e il ruolo dell’eccitazione nella memoria emozionale. Ancora una volta, questi studi sono basati completamente su protocolli verbali e, a questo stadio di ricerca, il problema della competenza nella discriminazione emozionale e nella struttura delle relazioni fra stati d’animo, emozioni e ragionamento deve ormai essere affrontato esplicitamente. 

La menzione di questi case studies cerca di fornire un terreno concreto di discussione ulteriore per la questione centrale del programma neurofenomenologico che sto tentando di proporre. Da un lato abbiamo una procedura che fa emergere dati con attributi neurobiologici ben definiti. Dall’altro abbiamo una descrizione fenomenologica che si collega direttamente alla nostra esperienza vissuta. Per fare ulteriori progressi abbiamo bisogno di tecniche e analisi molto sofisticate dal lato scientifico, e di un sostanziale sviluppo dell’indagine fenomenologica sugli obiettivi della ricerca stessa. 

Bisogna aspettarsi che l’elenco delle invarianti strutturali decisive per l’esperienza umana cresca all’infinito? Certo che no. Sono convinto che l’orizzonte dei temi fondamentali possa verosimilmente convergere verso un corpo di conoscenze ben integrate. Quando e con che ritmo questo accadrà, dipende naturalmente dal passo con cui si costituirà una comunità di ricercatori disposti a dedicarsi a questa modalità di ricerca, si creeranno così ulteriori elementi di prova. 

L’ipotesi di lavoro 

Tutto ciò mi riporta al punto di partenza: solo se in un problema teniamo debitamente conto, in modo rigoroso ed equilibrato, tanto dell’aspetto esterno quanto di quello esperienziale, saremo in grado di fare un passo avanti per superare il divario tra la mente biologica e la mente esperienziale. Cercherò di essere più esplicito sulla mia fondamentale ipotesi di lavoro per una "codeterminazione" tra l’analisi esteriore e quella fenomenologica: 


Ipotesi di lavoro della neurofenomenologia

Le analisi fenomenologiche sulla struttura dell’esperienza 
e le loro controparti nella scienza cognitiva 
sono correlate fra loro attraverso vincoli reciproci 

Il punto chiave è che, sottolineando una codeterminazione fra i due tipi di analisi, è possibile esplorarne i collegamenti, le sfide, le intuizioni e le contraddizioni. Ciò significa che entrambi i domini di fenomeni possiedono i medesimi diritti di ottenere pieno rispetto e attenzione per la propria specificità. 

È facile osservare come le analisi scientifiche gettano luce sull’esperienza mentale, mentre la direzione inversa, dall’esperienza alla scienza, viene sistematicamente ignorata. Che cosa possono offrire la analisi fenomenologiche? Quanto meno due aspetti essenziali del quadro più generale. 

Anzitutto, senza di loro la qualità di prima mano dell’esperienza svanisce, o diventa un misterioso enigma. 

In secondo luogo le analisi strutturali forniscono dei vincoli alle osservazioni empiriche. 

Lo studio dell’esperienza non rappresenta una comoda sosta sulla strada di una spiegazione concreta, ma un’attiva partecipazione, a pieno titolo, a quest’ultima. Naturalmente in questo programma di ricerca, come in ogni altro degno di questo nome, lentamente si accumulano un certo tipo di prove, mentre altri aspetti restano più oscuri e difficili da comprendere. 

I case studies menzionati prima richiedono naturalmente uno sviluppo radicale, ma io spero sia chiaro come, sui vari problemi generali e specifici, si cominci a creare una prospettiva "stereoscopica" nel momento in cui l’esperienza e la scienza cognitiva instaurano una collaborazione attiva. 

Questa esigenza di una rigorosa codeterminazione fenomenologica rappresenta un obiettivo più preciso e ambizioso sia "dell’equilibrio riflessivo" proposto da Flanagan [1992], sia della "proiezione consapevole" auspicata da Velmans [1996]. Nonostante vi sia una certa affinità con le intenzioni della mia proposta, costoro non propongono esplicitamente alcuna base metodologica nuova o esplicita per promuovere tali intenzioni. 

Si tratta comunque di un progresso rispetto a Searle, che insiste sul fatto che si deve assumere un atteggiamento naturalistico e sul fatto che la coscienza è "ovviamente" una proprietà emergente. Anche perché di tale naturalismo non c’è traccia nel suo libro: non c’è neanche una riga che parli esplicitamente di un qualche meccanismo, per cui il suo naturalismo resta lettera morta. 

Il nucleo fondamentale dell’ipotesi che propongo è quello di fornire una direzione precisa del fare ricerca nella scienza cognitiva in modo che la fisiologia del cervello e l’esperienza mentale abbiano la stessa importanza. Così, per esempio, un meccanismo di integrazione cerebrale su larga scala come la sincronia neurale durante il ritmo gamma dovrebbe essere confermato anche sulla base della sua capacità di fornire una comprensione delle analisi in prima persona di contenuti mentali come la durata. 

I problemi empirici devono essere guidati dall’evidenza in prima persona. Questo duplice vincolo non dovrebbe comunque essere applicato a descrizioni che non hanno una diretta rilevanza a livello dell’esperienza, ad esempio a reazioni cellulari o alla propagazione di un neurotrasmettitore. La richiesta di appropriati livelli di descrizione tra gli eventi cerebrali e il comportamento non è certo nuova ne controversa, se facciamo eccezione dei riduzionisti radicali. La novità della mia proposta risiede nel fatto che rigorose analisi in prima persona dovrebbero costituire un elemento integrante della conferma di un’ipotesi neurobiologica, e non essere considerate semplicemente come coincidenze o informazioni di tipo euristico. 

Ecco perché preferisco descrivere la situazione attraverso l’ipotesi che entrambe la analisi costituiscano un mutuo vincolo l’una per l’altra. Mi si potrebbe obiettare che questa non è altro che una versione più sanguigna (o quanto meno un isomorfismo) della ben nota teoria dell’identità fra l’esperienza e le analisi della neuroscienza cognitiva. Non è così, poiché io sostengo che le correlazioni sono tutte da stabilire attraverso una ricerca metodologicamente coerente delle invarianti esperienziali, e non semplicemente come una questione di impegno filosofico o di assunto fisicalista. Ancora una volta voglio ripetere che si tratta di un problema pragmatico e dell’apprendimento di una metodologia, e non di un’argomentazione a priori o di una presa di posizione eminentemente teorica. 

Per contrasto, una tesi più convenzionale sulla psico-identità è invece all’opera nella struttura di un ragionamento che Pessoa, Thompson e Noë [1996] chiamano, seguendo D. Teller, proposizioni di collegamento (linking propositions). Si tratta di proposizioni del tipo: ϕ assomiglia a ψ => ϕ  spiega ψ, in cui ϕ denota termini neurofisiologici e ψ termini fenomenici, e dove l’operatore di implicazione ha valore condizionale: se l’evento empirico "assomiglia" all’evento fenomenico, allora quest’ultimo è spiegato dal primo. 

Un ottimo esempio è fornito dall’entusiasmo di Crick quando esamina l’associazione dei correlati di un singolo neurone con il subitaneo scatto nell’esperienza durante la visione binoculare di figure rivali [Leopold e Logothetis, [1996], che egli interpreta come una spiegazione di questa forma di coscienza visiva. 

Ponti di questo tipo non sono soddisfacenti, perché lasciano il problema insoluto. E poi resta ancora da risolvere la natura della freccia: come queste unità neurali siano connesse al resto dell’attività cerebrale, come acquisiscano il loro senso, e soprattutto che cosa, in loro, le trasformi in un evento esperienziale. 

Ci troviamo di nuovo punto capo con il problema difficile del tutto irrisolto. Quello che è differente nella strategia di ricerca proposta dalla neurofenomenologia è che questi ponti non sono del tipo "assomiglia a", ma sono costruiti tramite vincoli reciproci e vengono confermati da entrambi i domini fenomenici, entro i quali i termini fenomenici si presentano come termini precisi e direttamente collegati all’esperienza attraverso un’analisi rigorosa (e cioè riduzione, invarianza e comunicazione intersoggetiva). 

Questa ipotesi di lavoro ha dei punti di contatto con la nozione di "coerenza strutturale" proposta da Chalmers come uno dei tre principi fondamentali sulla struttura della coscienza. Infatti "proprio perché le proprietà strutturali della coscienza sono accessibili e comunicabili, tali proprietà saranno direttamente rappresentate nella struttura della coscienza" [1995, p. 213]. 

Dal mio punto di vista ciò è sostanzialmente corretto, ma così formulato è fatalmente incompleto almeno rispetto a due problemi chiave già sollevati. Primo, questa struttura dell’esperienza ha bisogno di un metodo di indagine e di conferma, e non è affatto sufficiente limitarsi a sostenere che noi siamo in grado di lavorare sulla struttura della consapevolezza.

Secondo, il principio di Chalmers non ha alcuna rilevanza ontologica, poiché gioca un ruolo nella coerenza strutturale grazie ai suoi contenuti intuitivi, e così mantiene viva la sua connessione diretta con l’esperienza umana, invece di relegarla nell’astrazione. 

Tutta la differenza sta qui: un’analisi intellettuale coerente della mente e della coscienza si ottiene solo quando il polo esperienziale entra direttamente nella formulazione dell’analisi nel suo complesso, con un riferimento diretto alla natura della nostra esperienza vissuta. La "difficoltà" e l’enigma si trasformano in un programma di ricerca aperto alla loro esplorazione con un metodo senza pregiudizi in cui la struttura dell’esperienza umana gioca un ruolo centrale nella spiegazione scientifica. 

Ciò che non funziona in tutte le analisi funzionaliste non è certo il tipo di coerenza esplicativa, ma la loro distanza dalla vita umana. Solo il rientro in campo della vita umana potrà superare questo difetto, e non certo qualche "ingrediente in più" o qualche "aggiustamento teorico" profondo. 

Allo stesso modo non coglierebbe il punto che si aspetta che l’approccio neurofenomenologico possa fornire delle intuizioni completamente nuove sui meccanismi empirici (Ma in fin dei conti col tuo metodo cosa aggiungi alla scienza cognitiva che già non sappiamo?"). Certamente l’approccio della riduzione fenomenologica fornisce idee interessanti sulla struttura (come per i casi della temporalità e del completamento percettivo), ma la sua forza principale consiste nel fatto di riuscire a farlo in un modo che renda riconoscibile la nostra esperienza. Non ho dubbi che questo scatto di secondo ordine sarà la cosa più difficile da apprezzare per gli studiosi di persistente inclinazione funzionalista. 

In conclusione 

La coscienza: il problema difficile o una bomba a orologeria? 

Praticamente fin dai suoi inizi la scienza cognitiva si è rimessa a un insieme molto preciso di idee chiave e di metafore che può essere chiamato rappresentalismo, per cui il tratto centrale è dato dalla distinzione interno/esterno: un esterno (un mondo totalmente delineato) rappresentato all’interno grazie all’azione di complessi apparati percettivi. 

In anni recenti si è avuto un lento ma decisivo cambiamento verso un orizzonte alternativo, che ho difeso e appoggiato per molti anni [vedi Varela, 1979; Varela, Thompson e Rosch, 1991]. Questo orientamento è diverso dal rappresentazionalismo perché tratta la mente e il mondo come realtà che si sovrappongono reciprocamente, da cui la denominazione qualificante di scienza cognitiva incarnata, situata o generativa (enactive). 

Non è possibile riassumere in questa sede lo stato attuale della scienza cognitiva incarnata, ma questa proposta relativa allo studio della coscienza si allinea con quelle idee di più vasta portata. Sembra ormai ineludibile far avanzare la tendenza verso l’incarnazione nella direzione di una considerazione di principio dell’incarnazione come esperienza vissuta. 

Nel nostro libro [Varela, Thompson e Rosch, 1991] abbiamo messo in luce fin dal principio la circolarità intrinseca della scienza cognitiva, per cui lo studio di un fenomeno mentale è sempre quello di una persona che fa esperienza. Abbiamo sostenuto che la scienza cognitiva non può sottrarsi a questa circolarità, e che deve invece farne tesoro, coltivandola. 

Ci siamo ispirati in maniera esplicita alle tradizioni orientali, e al buddhismo in particolare, come manifestazioni viventi di una fenomenologia attiva e rigorosa. L’intenzione del nostro libro non era quella di attardarsi sulle tradizioni orientali in sé ma di usarle come uno specchio a distanza di ciò che è necessario coltivare nella nostra scienza e nella tradizione occidentale. 

L’attuale proposta porta un passo più in là ciò che era stato iniziato in quel libro, concentrandosi sul problema chiave della metodologia. Spero di aver convinto il lettore a prendere atto che abbiamo davanti a noi la possibilità di una ricerca scevra da pregiudizi, che stabilisca dei passaggi significativi tra l’esperienza umana e la scienza cognitiva. Il prezzo, in ogni caso, è quello di prendere sul serio le analisi in prima persona come validi domini di fenomeni. 

E, al di là di questo, costruire una solida tradizione di analisi fenomenologica che oggi è pressoché del tutto inesistente nella scienza e nella cultura occidentale nel suo complesso. Bisogna prendere sul serio la doppia sfida rappresentata dalla mia proposta. Per prima cosa essa esige un ri-apprendimento e una padronanza delle capacità di descrizione fenomenologica. Non c’è alcuna ragione per cui ciò dovrebbe essere diverso dall’acquisizione di ogni competenza, come imparare a suonare una strumento o a parlare una nuova lingua. 

La riscoperta fenomenologica dell’empatia 

E. Stein e A. Schutz sono stati due dei più attivi ricercatori sull’empatia (Einfϋhlung) nei primi tempi della fenomenologia. Per un’ottima discussione recente sugli sviluppi relativi alla trascendenza, all’empatia e all’intersoggettività nella fenomenologia husserliana vedi Depraz [1996], Abrams [1996] ci offre una rievocazione poetica della stessa questione attraverso uno sguardo ambientalista. 

Questa riscoperta fenomenologica dell’empatia può essere illustrata per i nostri propositi in questa sede tramite una serie di studi empirici paralleli, e cioè, più che attraverso la riduzione fenomenologica stessa, facendo riferimento ai correlati naturali dell’empatia che emergono dalla ricerca scientifica. A mano a mano che gli studi sulla storia naturale della mente continuano a progredire, diventa sempre più chiaro che la solidarietà e l’empatia, come altre presunte funzioni umane superiori, sono presenti in tutti i mammiferi superiori, e sicuramente nei primati. 

Come de Waal [1996] sostiene in modo convincente nel suo recente lavoro, le scimmie manifestano l’intero spettro delle inclinazioni morali, e fin dalla più tenera età sono in grado di mettersi al posto di un altro individuo, anche in assenza di qualunque relazione di parentela. Così, fin dalle nostre primordiali radici evolutive, il senso del sé va visto più correttamente come una qualità olografica che non può essere separata dall’esistenza molteplice distribuita degli altri, che rappresentano la nostra ineludibile ecologia umana. 

Chiunque si impegni in un apprendimento, sia esso musicale, linguistico o di pensiero, andrà ad approntare un cambiamento nella vita quotidiana. Questo è ciò che rappresenta il quarto requisito della riduzione fenomenologica: un apprendimento costante e rigoroso implica una trasformazione, come avviene per ogni attività portata avanti con costanza e determinazione.

Questo è accettabile se rifiutiamo l’assunto (cosa che io faccio) che esista un qualche tipo di modello ben definito di ciò che debba essere considerata una esperienza reale e normale: l’esperienza sembra essere intrinsecamente aperta e flessibile, per cui non c’è alcuna contraddizione nel sostenere che la pratica di apprendimento costante di una metodologia può rendere disponibili aspetti dell’esperienza non raggiungibili in precedenza. 

Il punto centrale della riduzione fenomenologica è quello di superare, tra le altre, l’abitudine all’introspezione automatica, e noi non dobbiamo preoccuparci tanto di ciò che possiamo perdere, quanto di rivolgere il nostro interesse a ciò che possiamo imparare. 

H. Dreyfus [1993] in una recensione un po’ critica del nostro libro ci rimproverava di enfatizzare la trasformazione che accompagna l’apprendimento dell’osservazione fenomenologica, per il fatto che proprio ciò interferisce con "l’esperienza quotidiana". Questo sarebbe certamente un errore se si presumesse di svelare uno "strato più profondo" tramite l’acquisizione di una qualche capacità, come la riduzione permanente o tramite una pratica di presenza mentale/consapevolezza, il che non rappresenta affatto la nostra posizione. Anche Dreyfus dovrebbe essere d’accordo sul fatto che non esiste alcun punto di osservazione privilegiato il grado di dirci cosa debba essere considerata come esperienza "reale". Dreyfus ha completamente frainteso il punto fondamentale: la riduzione fenomenologica non "scopre" qualche territorio oggettivo, ma produce piuttosto nuovi fenomeni all’interno del dominio esperienziale, con uno schiudersi di molteplici possibilità. 

La seconda sfida lanciata dalla mia proposta è quella dell’esigenza di trasformazione dello stile e dei valori della stessa comunità dei ricercatori. Se non accettiamo il fatto che, a questo stadio della nostra storia intellettuale e scientifica, è necessaria una sorta di ri-apprendimento radicale, non possiamo sperare di fare un passo avanti e spezzare la ciclicità storica di fascinazione – rifiuto della coscienza nella filosofia della mente e nella scienza cognitiva. 

La mia proposta implica che ogni bravo studente di scienza cognitiva che sia anche interessato ai problemi a livello dell’esperienza mentale, deve ineluttabilmente raggiungere un alto grado di abilità nella ricerca fenomenologica per poter lavorare seriamente con le analisi in prima persona. Ma questo può verificarsi solo se l’intera comunità dei ricercatori riesce a modificarsi (con un cambio di atteggiamento in parallelo rispetto alle forme di argomentazione accettabili, ai criteri di selezione dei contributi e alle politiche editoriali delle principali riviste scientifiche) in modo tale che questa competenza aggiuntiva diventi una dimensione essenziale per un giovane ricercatore. 

Per l’inveterata tradizione della scienza oggettivista tutto ciò suona come un anatema, e in effetti lo è. Ma non si tratta di un tradimento della scienza: è una sua necessaria estensione e integrazione. La scienza e l’esperienza si vincolano e si modificano a vicenda come in una danza. Ed è qui che giace il potenziale per la trasformazione. E qui si trova anche la chiave degli ostacoli che questa posizione ha trovato all’interno della comunità scientifica, poiché ci chiede di abbandonare una certa immagine di come si fa scienza, e di mettere in discussione uno stile di addestramento scientifico che è una parte importante della costruzione della nostra identità. 

In breve: di che cosa si tratta 

Lasciate che concluda riassumendo le questioni principali che ho sollevato in questa risposta al "problema difficile" della coscienza, basata su una proposta precisa per porvi rimedio. 

L’argomentazione 

  • In linea col punto fondamentale di Chalmers, io considero l’esperienza vissuta in prima persona come un particolare campo di fenomeni, irriducibile a qualsiasi altra cosa. Il mio assunto è che nessuna sistematizzazione teorica né qualche "ingrediente in più" in natura siano in grado di colmare tale divario. 

  • Piuttosto, questo campo di fenomeni esige una pragmatica specifica e un metodo rigoroso per la sua elaborazione e analisi. 

  • I criteri di orientamento di tale metodo si ispirano allo stile di indagine delle fenomenologia, con l’obbiettivo di arrivare a costituire un’estesa comunità di ricercatori e un programma di ricerca. 

  • Tale programma ricerca articolazioni reciprocamente vincolanti tra il campo di fenomeni rivelato dall’esperienza e il correlato campo di fenomeni costituito dalle scienze cognitive. Ho denominato questo punto di vista neurofenomenologia. 
Le conseguenze 

  • Senza un radicale sviluppo dello stile di lavoro nella tradizione scientifica e senza l’affermarsi di un programma di ricerca secondo queste prospettive, l’enigma sul posto occupato dall’esperienza nella scienza e nel mondo continuerà a riemergere, o per essere rimosso, o per essere ogni volta dichiarato troppo difficile allo stadio delle conoscenze. 

  • La natura di ciò che è "difficile" risulta così ristrutturata in due sensi:

  1. è difficile sviluppare e consolidare nuovi metodi per esplorare l’esperienza; 
  2. è difficile modificare le abitudini della comunità scientifica e farle accettare l'indispensabilità di disporre di nuovi strumenti per la trasformazione di cosa significhi condurre ricerche sulla mente, e per l'addestramento delle nuove generazioni. 

Note 

1. Il "problema difficile" (the hard problem) negli studi sulla coscienza cui programmaticamente accenna Varela sin dal titolo è quello sollevato da David Chalmers nel suo The Conscious Mind [1996] e nell’articolo che ha innescato il dibattito sul Journal of Cosciousness Studies, da cui citiamo il brano seguente per presentare a titolo esemplificativo i termini della questione: "In realtà il problema più difficile (the hard problem) della coscienza è il problema dell’esperienza. Quando noi pensiamo o percepiamo c’è un’enorme attività di elaborazione dell’informazione, ma c’è anche un aspetto soggettivo. Per dirla come Nagel, si prova qualcosa a essere un organismo cosciente. Questo aspetto soggettivo è l’esperienza" [Chalmers, 1995, p. 201]. 


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Fonte:Pluriverso, Biblioteca delle idee per la civiltà planetaria
Trimestrale diretto da Mauro Ceruti
Anno II, Numero 3
Novembre 1997RCS Libri s.p.a.