mercoledì 29 novembre 2017

Trascorrere un quarto d'ora da soli ogni giorno migliora l'umore e allevia lo stress


Di Francesca Biagioli per Greenme.it 

Spesso consideriamo la solitudine come qualcosa di negativo. In realtà questa condizione, ovviamente se scelta e goduta e non subita, ha anche molti risvolti positivi. Una nuova ricerca svela, ad esempio, i vantaggi di passare ogni giorno un quarto d’ora da soli dedicandosi ad attività come lettura, meditazione o semplicemente pensando.
Un team di ricerca americano, che ha visto pubblicati i risultati del suo studio sulla rivista Personality and Social Psychology Bulletin, sostiene che bastano 15 minuti al giorno in solitudine per riscontrare notevoli vantaggi sull’umore e sulla gestione delle emozioni negative.
Non si deve però stare soli a rimuginare ma compiere attività positive come ad esempio leggere un bel libro, praticare meditazione e yoga ma anche semplicemente pensare. Questo tempo completamente dedicato a se stessi e al proprio benessere avrebbe ripercussioni positive sul nervosismo e sullo stress alleviando le tensioni. Sembrerebbe dunque un mezzo semplice che tutti abbiamo a disposizione per ricaricarci un po’ dalle fatiche della giornata.
Gli studiosi dell'Università di Rochester (New York) per arrivare ad affermare questo hanno preso a campione 114 adulti che sono stati fatti stare soli per 15 minuti dopo aver intrattenuto una conversazione nei 15 minuti precedenti. Trascorso il tempo gli è stato chiesto di compilare dei questionari. Si è visto così che i partecipanti avevano provato meno agitazione, nervosismo, sofferenza e in generale le emozioni negative erano minoritarie rispetto a quelle di benessere.
In un secondo esperimento i ricercatori hanno esaminato le reazioni di 108 partecipanti che avevano trascorso un quarto d’ora in solitudine a pensare o a leggere. Si è visto così che in entrambi i casi le persone ne avevano guadagnato in relax. 
La controprova è avvenuta con un terzo esperimento condotto su 173 persone che hanno trascorso un quarto d’ora da sole ogni giorno per una settimana non facendolo poi nella settimana successiva. Anche in questo caso si è visto che trascorrere del tempo da soli è in grado di regalare un maggior relax e sensazioni positive.
Si è stabilito in 15 minuti quanto necessario a godere dei benefici della solitudine, andare oltre quel tempo, infatti, in alcuni casi faceva subentrare una sensazione di malinconia e malessere.
Naturalmente quando si parla di vantaggi della solitudine si fa riferimento alla solitudine attiva, ovvero quella voluta dalla persona stessa e non all'isolamento sociale, condizione che spesso vivono gli anziani e che è tutt’altro che positiva per la salute.
Se da una parte, dunque, la solitudine mette a rischio la socialità dall’altra offre dei vantaggi. Anche in questo caso è importante raggiungere il giusto mezzo tra lo stare da soli e la vita in comunità. 

giovedì 16 novembre 2017

Ascetismo zen, giovani giapponesi in fuga dal caos quotidiano



Grande partecipazione a programmi di meditazione, digiuni e ritiri in montagna. Per i monaci, è il segno delle complessità della società moderna. 

Tokyo (AsiaNews/Agenzie) – Una vita senza computer e cellulari, con restrizioni a mangiare e a lavarsi, a volte anche trovandosi appesi a un precipizio a testa in giù. Sono pratiche di vita ascetica a cui prendono parte sempre più giovani giapponesi per fuggire dal caos cittadino, in cerca di se stessi e della pace mentale. 

L’offerta di programmi di ascetismo non è una novità per i templi buddisti, ma sono i tempi ad essere cambiati. Secondo diversi monaci è proprio la complessità della società moderna a motivare il crescente numero di aderenti alle iniziative di vita ascetica. Alcuni partecipano per superare le difficoltà fisiche e psicologiche di tutti i giorni; altri perché stufi dei rapporti umani. 

Un esempio è un programma che si è tenuto verso la fine di settembre, quando 30 persone, per lo più giovani, hanno praticato il buddismo zen al tempio Hosenji di Kameoka, nella prefettura di Kyoto. Durante il ritiro, i partecipanti si svegliavano alle 5.20 del mattino. La giornata procedeva con attività di meditazione, preghiera e lavoro manuale all’aperto fino alle 10 di sera, ora di andare a letto. I responsabili del tempio sostengono che il numero dei giovani che aderiscono è cresciuto negli ultimi anni, in particolare fra le persone sui 20 anni. 

A Narita (prefettura di Chiba), il tempio Naritasan Shinshoji organizza sessioni di digiuno che durano fra i tre e sette giorni. Il numero degli iscritti è più che raddoppiato nel corso degli ultimi dieci anni: da 200 a 460 all’anno. Dopo una settimana di preparazione e un controllo all’ospedale, coloro che si sottopongono al digiuno si ritirano in un seminario di “confinamento”: non possono lasciare il tempio, sono obbligati a due cerimonie nella giornata, ma possono spendere il resto del tempo come preferiscono, fra lettura e meditazione zen. Fare il bagno è proibito in quanto debilita il fisico. 
Un ultimo esempio è il monte Ominesan a Tenkawa, nella prefettura di Nara. Esso è un luogo sacro per l’ascetismo di montagna “Shugendo” – una scuola religiosa del folklore giapponese che unisce elementi di adorazione della montagna, buddismo esoterico e altre correnti di pensiero. In estate, sul monte Ominesan si tengono numerosi programmi ascetici. Il rigoroso “Nishi-no-Nozoki” (introspezione dall’occidente) include l’essere appesi per i piedi da un precipizio, e a parteciparvi non sono solo i giapponesi, ma anche occidentali. 

venerdì 10 novembre 2017

Mindfulness e sport: lasciar andare e…vincere!




Attraverso l'utilizzo della mindfulness nello sport, l'atleta troverebbe un modo per affrontare gli ostacoli interiori al raggiungimento del risultato. La mindfulness sta diventando una pratica sempre più diffusa in ogni ambito, da quello clinico a quello aziendale passando anche per la psicologia dello sport. 

di Patrizia Vaccaro per State Of Mind 

Gli atleti nell’affrontare una gara mettono in atto una serie di strategie psicologiche per gestire lo stress determinato dalla competizione (emozioni negative, paura di sbagliare/perdere, pensieri disfunzionali che possono influenzare negativamente la loro performance). In aggiunta ci possono essere alcune caratteristiche di personalità o l’adozione di stili di coping evitanti o, ancora, elementi psicopatologici, che possono peggiorare ulteriormente la prestazione (Birrer, 2012). 

Fino a qualche anno fa all’interno della psicologia dello sport veniva utilizzato un programma di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per potenziare l’autocontrollo rispetto a pensieri ed emozioni che avrebbero potuto inibire la performance (Moore, 2009) 

Gli studi più recenti invece hanno cercato di introdurre un programma basato sulla mindfulness e sull’accettazione. 

Nel 2012 Birrer e i suoi collaboratori, hanno cercato di elaborare un modello che spiegasse la maggiore efficacia della Mindfulness rispetto al programma tradizionale, sulla base della letteratura sulla Mindfulness e gli studi sulla psicologia dello sport. 

La pratica mindfulness 

Ma innanzitutto, cos’è la mindfulness? La parola mindfulness, in italiano consapevolezza, traduce il termine Vipassana, il nome in lingua pali di un’antica tecnica di meditazione buddista. E’ stato John Kabat Zinn, un biologo molecolare statunitense a ideare nel 1979 un protocollo scientifico (Mindfulness based-stress reduction) a partire dalle antiche tecniche della presenza mentale, protocollo la cui efficacia è stata confermata in termini sperimentali e ampliata in diversi ambiti. 

La pratica mindfulness va distinta da quella che è stata definita come dispositional Mindfulness (DM) perché la prima indica un metodo che va coltivato, mentre la seconda indica la tendenza a “Essere mindfulness” una propensione innata alla consapevolezza intenzionale, ovvero l’essere consapevoli dei propri pensieri e sentimenti nel momento presente. 

Gli atleti con maggior pratica Mindfulness ed elevata dispositional Mindfulness migliorano il livello di strumenti psicologici richiesti attraverso diversi meccanismi che agirebbero come mediatori tra la mindfulness e la performance finale. In particolare si tratta di: 

Attenzione “nuda”: la Mindfulness migliora l’attenzione e le abilità percettive e cognitive. Gli atleti si distraggono di meno, sono più capaci di controllare la loro attenzione, di concentrarsi e di direzionare l’azione sull’obiettivo. Se l’attenzione non si disperde su contenuti irrilevanti, c’è una maggior lucidità e quindi efficacia nell’ottenere il risultato migliore. 

Attitudine: atteggiamento della pratica di consapevolezza (accettazione, non giudicante, apertura, rispetto di sé e non reattività). La pratica della consapevolezza aumenta l’accettazione esperienziale (Hayes et al., 1999). Gli atleti accettano una discrepanza di prestazioni (prestazioni inaspettate e prestazioni inattese) non mettendo in atto delle risposte reattive che incidano sulle loro abilità motorie. 
Chiarimenti dei valori: la pratica di consapevolezza porta a una chiarificazione dei valori personali (Shapiro et al., 2006). Gli atleti potrebbero identificare i conflitti tra i loro valori personali e il loro comportamento nel raggiungimento di un risultato o nella soddisfazione di un bisogno. 

Autoregolazione e regolazione delle emozioni negative. Gli atleti possono diventare più capaci a gestire la rabbia, la paura e altre emozioni negative. La regolazione dell’arousal, le capacità di coping, la comunicazione e la capacità di leadership migliorerebbero con la Mindfulness. 

Chiarezza circa la propria vita interiore: la Mindfulness insegna a vedere con chiarezza i nostri movimenti interiori e a essere meno reattivi in presenza di emozioni negative. Una migliore consapevolezza ha un effetto positivo sullo sviluppo personale e sulla vita, sul sé così come sulla capacità di comunicazione, di coping e di leadership. 

Esposizione: la pratica incide sull’esposizione in particolare permette di rimanere in contatto con le esperienze spiacevoli senza evitarle. In termini sportivi, significa che gli atleti possono essere maggiormente in grado di gestire un momento stressante o spiacevole durante una gara o durante l’allenamento. 

Flessibilità cognitiva, emotiva e comportamentale:l’adattamento e flessibilità nel rispondere all’ambiente come risultato della MD permette il consolidamento dello sviluppo personale e degli strumenti di comunicazione e leadership. 

Non-attaccamento: ovvero la credenza che ciascuno di noi possa essere felice è indipendente dall’ottenere risultati positivi, questo è il risultato della pratica Mindfulness. 

Minore rimuginio: la Mindfulness riduce il rimuginio o la sensazione di incontrollabilità del rimuginio

Questi meccanismi vanno quindi a influenzare una serie di abilità utilizzate dagli atleti tra cui le abilità di coping, motivazionali, gestione del dolore, abilità attentive, legate all’arousal, percettive, cognitive, motorie e comunicative. La riduzione del rimuginio sembra essere quello che produce effetti su una quantità maggiore di abilità. 

La performance ad alti livelli 

Per dimostrare l’efficacia degli interventi di Mindfulness sugli atleti bisogna però comprendere meglio cosa sia la performance ad alti livelli per la psicologia dello sport. 

Essa può essere compromessa da alcuni fattori psicologici (non necessariamente patologici). Tra gli altri, gli inibitori della performance includono anche le aspettative irrealistiche spesso determinate da una personalità perfezionistica o problematica, ansia da competizione, timore di sbagliare, tensione percepita, comportamenti evitanti, problemi relazionali, difficoltà di vita….tutti questi elementi abbassano la performance. 

Al contrario uno stato psicofisico caratterizzato da processi orientati all’obiettivo permettono una performance eccellente. Durante la gara gli atleti adottano una serie di comportamenti automatici in risposta a specifiche situazioni. Questo processo è chiamato adattamento alla discrepanza e consiste nell’automonitoraggio, nell’autovalutazone e nella scelta del comportamento migliore (più adattivo). 

Uno degli effetti della mindfulness è proprio quello di modificare il modo con cui le persone si relazionano ai propri stati interni intesi come pensieri ed emozioni. Secondo la psicologia buddista, diminuisce la proliferazione mentale, cioè l’abituale reazione di attaccamento o avversione a quegli stati che possono essere giudicati come piacevoli, spiacevoli o neutrali (Grabovac, 2011). 

Mindfulness e sport: come è possibile il connubio tra meditazione e prestazione sportiva? 

Ma come si può mettere insieme la Mindfulness che si fonda sull’accettazione del qui e ora con la prestazione sportiva? 

Se attraverso la Mindfulness si cerca di liberarsi dal desiderio osservando gli attaccamenti, ciò può sembrare in contraddizione con l’atleta che vuole vincere la gara. È un paradosso che forse può essere spiegato dalle parole di un famoso tennista che perse in modo del tutto inaspettato, visto il vantaggio nell’ultimo set, durante una semifinale degli US Open. Il suo commento è stato: “ho pensato, è fatta. Prima di giocare l’ultimo match ball ero molto eccitato all’idea che le cose andassero così bene. 15’ dopo ho perso la partita. Perdere così è veramente deludente, anche perché avevo capito che il mio avversario aveva già rinunciato alla vittoria nella sua testa“. Un altro nuotatore, dopo aver conseguito l’ennesimo record mondiale, ha affermato: “chi pensa di vincere ha già perso“. 

In queste affermazioni c’è il punto di incontro tra lo sport e la Mindfulness: focalizzare l’attenzione sul momento presente accettando ciò che arriva in quel momento, senza fare previsioni su quello che accadrà. Stare lì con un’esperienza spiacevole o con un dolore fisico o con un pensiero che arriva o con l’eccitazione che travolge. 

Stare lì. Accettare e lasciare andare senza aspettarsi nulla sul dopo. 

A partire da questo modello, in una ricerca svedese del 2107 si cerca di fare un passo in più. In particolare si fa riferimento a due studi che indagano il rimuginio e la capacità di regolazione emotiva come mediatori tra la consapevolezza e l’uso di strategie di coping adeguate nello sport. 

Si ipotizza che in un contesto sportivo la mindfulness non agisca direttamente sulla prestazione, ma attraverso altre variabili. In particolare la tesi di fondo è che l’ansia da competizione medi tra la naturale predisposizione alla mindfulness e la performance sportiva. Dunque, il risultato finale sembra essere influenzato indirettamente attraverso una riduzione del rimuginio, ovvero un pensiero negativo incontrollabile, ripetitivo e autocentrato, e un miglioramento della regolazione emotiva. 

Quest’ultima non si riferisce tanto al controllo emotivo, quanto alla capacità di gestire, adattarsi e rispondere alle emozioni. Perché ciò avvenga occorre essere consapevoli, riconoscere e accettare le proprie emozioni. In secondo luogo occorre mettere in atto comportamenti finalizzati al risultato e inibire comportamenti impulsivi come risposta reattiva alle emozioni negative. Ciò comporta una certa flessibilità o uso di strategie appropriate per modulare l’intensità delle risposte emotive. Infine, occorre lavorare sull’accettazione degli stati negativi come facenti parte della vita. 

Come si legano allora rimuginio, regolazione emotiva e mindfulness nello sport? In questi studi vengono esaminati 244 giovani atleti in uno studio trasversale e 65 nello studio longitudinale. Tutti vengono sottoposti a questionari sulla regolazione emotiva, rimuginio e sull’essere consapevoli. In entrambe le ricerche risulta che gli atleti con una predisposizone innata alla mindfulness avevano una maggiore capacità di comprendere i propri stati interni, una minore reattività, una maggiore capacità di autoregolazione in situazioni di stress e quindi una migliore performance. 

D’altra parte negli anni 70 Gallwey aveva già introdotto l’utilità della meditazione o meglio della consapevolezza, nel miglioramento della gestione dello stress nello sport ispirandosi alla filosofia zen e alla psicologia umanistica. Gallwey nel “Il gioco interiore del tennis” parlava di due sfide: la partita con l’avversario e quella interiore con i propri stati, ovvero il dubbio su se stessi, l’insicurezza, l’ansia e il conseguente calo di concentrazione. 

Già allora dunque il punto di partenza era proprio un miglioramento della consapevolezza con l’obiettivo di trovare il modo migliore per affrontare gli ostacoli interiori al raggiungimento del risultato. 

Lo stesso Kabat Zinn nel 1985 aveva messo a punto un training di Mindfulness per gli atleti di canottaggio futuri olimpionici. I ricercatori hanno riferito che gli atleti avevano superato le aspettative dell’allenatore in riferimento sia all’esperienza che avevano sia per le abilità fisiche. Gli stessi atleti hanno affermato che la Mindfulness li aveva aiutati a svolgere al loro pieno potenziale. Tuttavia, nonostante i buoni risultati questo programma era stato accantonato nella psicologia dello sport per i due decenni successivi. 

Negli ultimi dieci anni sono stati sviluppati dei programmi di training basati sulla Mindfulness e sono stati compiute una serie di ricerche sugli atleti per testarne l’efficacia in modo più rigoroso. 

Insomma anche in questo ambito, imparare a stare fermi nella tempesta, qualunque forma essa prenda, ancorati al corpo e al respiro, sembra essere la direzione per poter affrontare le sfide che arrivano. 

Bibliografia

Birrer D, Röthlin P, Morgan G., (2012), Mindfulness to Enhance Athletic Performance: Theoretical Considerations and Possible Impact Mechanisms, Mindfulness, 3; 325-346.
Gallwey, W. Timothy (1974). The Inner Game of Tennis (1st ed.). New York: Random House.
Gardner, F. L., & Moore, Z. E. (2007). The psychology of enhancing human performance. The mindfulness–acceptance–commitment approach (MAC). New York, NY: Springer.
Garbovac A., Lau M, Willem B., (2012), Mechanisms of Mindfulness: A Buddhist Psychological Model, Mindfulness, 2, 154-166. DOWNLOAD
Hayes, S. C., Strosahl, K., & Wilson, K. G. (1999). Acceptance and commitment therapy: an experiential approach to behavior change. New York: Guilford.
Moore, Z. E. (2009). Theoretical and empirical developments of the Mindfulness–Acceptance–Commitment (MAC) approach to per- formance enhancement. Journal of Clinical Sport Psychology, 4, 291–302.
Kabat-Zinn, J. (1982). An outpatient program in behavioural medicine for chronic pain patients based on the practice of mindfuness meditation: theoretical considerations and preliminary results. General Hospital Psychiatry, 4, 33–42.
Kabat-Zinn, J. (1990). Full catastrophe living. Using the wisdom of your body and mind to face stress, pain and illness. New York: Dell.
Kabat-Zinn, J., Beall, B., & Rippe, J. (1985). A systematic mental training program based on mindfulness meditation to optimize performance in collegiate and Olympic rowers. Paper presented at the World Congress in Sport Psychology, Copenhagen, Denmark, June
Shapiro, S. L., Carlson, L. E., Astin, J. A., & Freedman, B. (2006). Mechanisms of mindfulness. Journal of Clinical Psychology, 62, 373–386.
Josefsson T., Ivarsson A.,l Falkevik,(2017), Mindfulness Mechanisms in Sports: Mediating Effects of Rumination and Emotion Regulation on Sport-Specific Coping, Mindfulness, 8, 1354-1363. 

State of Mind © 2011-2017 Riproduzione riservata 

domenica 5 novembre 2017

Così i ritiri spirituali incidono biologicamente sul nostro cervello



di ENRICO FORZINETTI per LA STAMPA SALUTE

La meditazione non aiuta soltanto a sentirsi meglio con se stessi e con gli altri, ma ha anche un effetto biologico sul cervello. Lo hanno dimostrato i ricercatori della Thomas Jefferson University in un recente studio pubblicato sulla rivista Religion, Brain & Behavior. 

La ricerca ha coinvolto 14 fedeli di religione cristiana tra i 24 e i 76 anni. Questo gruppo si è raccolto in un ritiro spirituale di una settimana trascorso tra messe mattutine, esercizi di meditazione e riflessione e incontri con una guida spirituale. Al ritorno alla vita quotidiana i partecipanti hanno ammesso di aver avuto benefici fisici e mentali. Ma non era finita qui. 

GLI EFFETTI SUL CERVELLO 

Sottoponendo le persone a una tecnica di imaging cerebrale è stato possibile confrontare la quantità di trasportatori di due neurotrasmettitori prima e dopo la settimana di ritiro spirituale. È stato osservato che erano diminuiti dopo sette giorni di circa il 6%: questo significava che nel cervello si trovava una quantità superiore sia di dopamina che di serotonina, molecole implicate nelle emozioni positive e nella regolazione dell’umore. 

«In qualche modo il nostro studio ci lascia più interrogativi che risposte - ha ammesso Andrew Newberg medico e direttore del centro di ricerca dell’università americana - Il nostro gruppo ora è interessato a comprendere quali aspetti del ritiro spirituale abbiano provocato questi cambiamenti nel sistema dei neurotrasmettitori e capire se altri tipi di ritiri spirituali possano dare risultati diversi». 

L’UTILITÀ DELLA MEDITAZIONE  

Questi cambiamenti biologici nel cervello si aggiungono ad altre considerazioni sull’utilità della meditazione fatte in passato. Una ricerca sulla Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT), che combina terapia cognitiva e meditazione, si è dimostrata in grado di far calare la probabilità di ricaduta nella depressione da parte di soggetti che ne hanno sofferto. 

Come ha ricordato il dottor Roberto Di Rubbo, medico specialista in Psichiatria e Psicoterapia ed esperto di Mindfulness, la meditazione può essere infatti di aiuto su persone di ogni fascia di età e per un ampio spettro di disturbi, come anche quelli legati all’ansia o all’alimentazione. 

Parallelamente al dare ampi benefici, la meditazione sta diventando un’attività sempre più facile da praticare. Chi non ha tempo di recarsi nei centri specializzati può sempre provare da solo usando alcune applicazioni, come ad esempio Medita Ora. Un’app che propone diverse meditazioni guidate per accompagnare ogni tipo di attività quotidiana. 



venerdì 3 novembre 2017

Dove sono le prove dell'efficacia della mindfulness?



[Nota del Redattore: Più di 10 anni fa denunciammo il pericolo da parte della Psicologia internazionale di fagocitare e monopolizzare unilateralmente il fenomeno della Mindfulness, perché il cammino proposto dal suo creatore, il biologo americano Jon Kabat-Zinn (https://it.wikipedia.org/wiki/Jon_Kabat-Zinn) presupponeva salde basi meditative fondate su decenni di pratica e non invece master frettolosi o scuole quadriennali di psicoterapia ad hoc. Ora questo articolo, di stimabili psicologi cognitivisti australiani e americani sembra darci ragione, almeno per quanto riguarda il moltiplicarsi di tecniche psicoterapeutiche improvvisate e il vertiginoso business di svariati miliardi di dollari che solo negli USA, ruota attorno alla pratica della mindfulness]. 

In un nuovo articolo 15 eminenti psicologi e cognitivisti denunciano la scarsità di dati scientifici sui benefici per la salute della meditazione mindfulness. A mancare sono soprattutto gli standard metodologici e una chiara definizione della pratica, la cui natura molto personale potrebbe però sfuggire a una verifica rigorosamente scientifica. 

di Bret Stetka/Scientific American 

Il concetto di mindfulness prevede che ci si concentri sulla situazione e sullo stato d'animo in cui ci si trova al momento. Questo può significare la consapevolezza dell'ambiente circostante, delle proprie emozioni e della respirazione o, più semplicemente, godersi ogni boccone di un buon panino. 

La ricerca negli ultimi decenni ha collegato pratiche di mindfulness a un'incredibile gamma di possibili benefici per la salute. Essere in accordo col mondo circostante può garantire un senso di benessere, secondo quanto affermano alcuni studi. Moltissime ricerche mettono in correlazione la mindfulness con un miglior funzionamento cognitivo. Uno studio suggerisce anche che possa conservare le estremità dei nostri cromosomi, che si perdono con l'invecchiamento. 

Eppure molti psicologi, neuroscienziati e esperti di meditazione hanno paura che le esagerazioni propagandistiche superino la scienza. In un articolo pubblicato su "Perspectives on Psychological Science" la scorsa settimana, 15 eminenti psicologi e cognitivisti sottolineano che, nonostante la sua popolarità e i suoi presunti benefici, i dati scientifici sulla mindfulness sono assolutamente carenti. Molti degli studi su mindfulness e meditazione, scrivono gli autori, sono mal progettati, indeboliti da definizioni incoerenti della mindfulness e spesso privi di un gruppo di controllo per escludere l'effetto placebo. 

L'articolo cita una rassegna del 2015 pubblicata su "American Psychologist" secondo cui solo il 9 per cento delle ricerche sugli interventi basati sulla mindfulness è stato verificato con studi clinici che includevano un gruppo di controllo. Gli autori sottolineano poi che molte ampie meta-analisi controllate con placebo hanno concluso che le pratiche di mindfulness hanno spesso prodotto risultati insignificanti. 

Una rassegna del 2014 di 47 studi sulla meditazione, per un totale di oltre 3.500 soggetti, non ha trovato praticamente alcuna prova di vantaggi in merito al miglioramento dell'attenzione, alla riduzione dell'abuso di sostanze, al miglioramento della qualità del sonno o al controllo del peso. 

Nicholas Van Dam, psicologo clinico e ricercatore di scienze psicologiche dell'Università di Melbourne, in Australia, autore principale dello studio, afferma che i potenziali vantaggi della mindfulness sono messi in ombra dalle affermazioni iperboliche e dalle speculazioni economiche. Meditazione e allenamenti di mindfulness sono un'industria da 1,1 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti. "Il nostro rapporto non dice che la meditazione mindfulness non sia utile per alcune cose", dice Van Dam. "Ma che manca il rigore scientifico per sostenere affermazioni tanto esagerate". 

Un'altra preoccupazione di Van Dam e collaboratori è che, a tutto il 2015, meno del 25 per cento degli studi sulla meditazione includeva il monitoraggio dei potenziali effetti negativi dell'intervento, una percentuale che vorrebbero veder aumentare via via che il settore si sviluppa. 

Van Dam riconosce che esiste anche qualche valida prova a supporto della mindfulness. La rassegna del 2014 ha mostrato che la meditazione e la mindfulness possono portare benefici modesti per ansia, depressione e dolore. Cita anche una revisione del 2013, pubblicata su "Clinical Psychology Review", su una terapia basata sulla mindfulness che ha trovato risultati simili. "L'intenzione e l'ampiezza di questa revisione sono benvenuti: stanno cercando di introdurre rigore e equilibrio in questo campo emergente", afferma Willem Kuyken, professore di psichiatria dell'Università di Oxford, nel Regno Unito, non coinvolto nel nuovo studio. "Ci sono molte aree in cui i programmi basati sulla mindfulness sembrano accettabili e promettenti, ma sono necessari studi randomizzati e rigorosi su scala più ampia". 

Anche due studi clinici pubblicati all'inizio di questo mese su "Science Advances" supportano le pratiche di mindfulness. Il primo ha scoperto che l'allenamento dell'attenzione di tipo mindfulness riduce lo stress auto-percepito, ma non i livelli dell'ormone cortisolo, un indicatore biologico comunemente usato per misurare i livelli di stress. L'altro studio mette in relazione l'allenamento dell'attenzione di tipo mindfulness con un aumento dello spessore della corteccia prefrontale, una regione del cervello associata al comportamento complesso, alle decisioni e alla personalità. Gli autori hanno suggerito ulteriori ricerche sul possibile significato clinico di questi risultati. 

Van Dam ritiene che i metodi di ricerca usati in questi due studi siano, ma sottolinea che entrambi soffrono anche del problema maggiore in questo campo: la mancanza di standardizzazione. Nel corso degli anni sono stati studiati vari approcci alla mindfulness, rendendo difficile il confronto tra i vari studi. 

La mindfulness affonda le radici nel pensiero e nella teoria buddista. In Occidente si diffuse negli anni settanta grazie a Jon Kabat-Zinn, cognitivista dell'università del Massachusetts, che ha fondato nell'ateneo la Stress Reduction Clinic il Center for Mindfulness in Medicine. Kabat-Zinn ha sviluppato quella che chiama "riduzione dello stress basata sulla mindfulness", una terapia alternativa per una serie di disturbi spesso difficili da trattare. Nei primi anni Duemila, il concetto di mindfulness è diventato di colpo popolare, acquisendo ben presto molti significati differenti e molti approcci terapeutici diversi. 

"Nel nostro articolo abbiamo commentato in modo specifico il fatto che molti continuano a sviluppare nuove tecniche senza valutare appieno quelle già disponibili", dice Van Dam. "Penso che questi studi, anche se ben progettati, siano diversi da quelli già disponibili quel tanto che basta per impedirci di sapere se possiamo usarne i risultati come prova dell'efficacia di altre pratiche basate sulla mindfulness". 

Come hanno scritto Van Dam e colleghi: "Non esiste una definizione tecnica universalmente accettata di 'mindfulness' né un ampio accordo sugli aspetti più dettagliati del concetto a cui si riferisce". 

"In generale, sospetto che molte delle promesse sulla salute non saranno mantenute, soprattutto perché terapie, app telefoniche e altri tipi di intervento vengono buttati di corsa sul mercato, senza una verifica abbastanza rigorosa e un’implementazione appropriata", afferma. "Ma considerato quello che abbiamo visto finora, immagino che si accumuleranno le prove a conferma del ricorso alla mindfulness per l'ansia, la depressione e le condizioni legate allo stress". 

Eric Loucks, professore di scienze comportamentali e sociali e direttore del Centro di Mindfulness dell'Università Brown, che non era coinvolto nel nuovo articolo, concorda che esistano più definizioni di mindfulness. Ma ritiene che non sarà semplice superare la difficoltà di portare un ricco concetto spirituale entro un quadro standardizzato per effettuare verifiche e consigliare i pazienti. 

"Un elemento nella definizione di mindfulness, se teniamo conto delle sue radici nel buddismo, è... la raccomandazione del Buddha che le descrizioni di concetti come 'mindfulness' "sono come un dito che punta alla Luna", spiega. "È importante non confondere il dito con la Luna. Ci saranno sempre delle differenze nel modo in cui le persone comprendono la mindfulness. Si tratta di un'esperienza personale". 

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su Scientific American l'11 ottobre 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) 

18 Ottobre 2017

giovedì 2 novembre 2017

La meditazione fa bene alla mente che lavora. Ecco come.



Questo blog è stato pubblicato su HuffpostUsa 
ed è stato tradotto da Milena Sanfilippo per HuffpostIta

I luoghi di lavoro sono più stressanti che mai. Con la tecnologia moderna, raramente gli impiegati hanno un momento della giornata per essere completamente lontani dalle responsabilità professionali. Un mercato del lavoro competitivo incoraggia gli impiegati a lavorare di più e più a lungo, affrontare un carico di lavoro più imponente rispetto al passato. Queste maggiori pressioni causano stress e ansia che colpiscono il modo in cui le persone prendono decisioni e portano a termine i propri compiti, in ufficio e fuori.

Molte aziende, grandi e piccole, hanno lavorato sodo per adottare programmi in-office che possano aiutare i dipendenti a gestire stress, ansia e pressioni lavorative. Oltre a coltivare un ambiente lavorativo positivo, molti dipendenti hanno riportato enormi miglioramenti grazie ai programmi di meditazione. Alcuni uffici offrono spazi per la meditazione, altri, invece, mettono a disposizione sessioni guidate che contribuiscono a introdurre pratiche consapevoli nella vita dell'impiegato, durante la giornata di lavoro. La più diffusa è la Meditazione Consapevole, una pratica che indirizza l'attenzione della mente al corpo e al respiro così da permettere una miglior concentrazione e promuovere una chiara consapevolezza dei pensieri e delle sensazioni. Ma gli effetti vanno oltre il momento della pratica, traducendosi anche in tutte le decisioni operate durante il giorno: da cosa mangiare, a come eseguire i propri compiti e passare il tempo libero.

In che modo la meditazione consapevole agisce sul cervello e sulla performance di chi lavora? Quando, durante la giornata, ci ritagliamo del tempo per smettere di lavorare e focalizzarci sul presente, avremo contribuito a rafforzare il controllo sulla produttività e delle attività mentali. Controllando i sensi e il respiro, è più facile sbarazzarsi di pensieri e sensazioni riguardanti passato e futuro, e allenare il cervello a concentrarsi sul momento presente. Impegnando il cervello in un allenamento che prevede una singola attività, impariamo a restare concentrati su quell'unico compito anziché cercare di portare a termine 10 incarichi in una volta sola ed essere multitasking. Allenare la mente a concentrarsi è indubbiamente vantaggioso per la produttività, laddove gli studi hanno dimostrato che l'attuale curva media dell'attenzione è di 8 secondi, a causa della società in cui viviamo, frenetica e ossessionata dalla tecnologia. A beneficiarne non è soltanto la performance del lavoratore ma, come dimostrato da studi, una regolare pratica di meditazione riduce stress e ansia presenti nel cervello.

Oltre alla riduzione dello stress e all'aumento della produttività, un programma di meditazione aziendale porta tanti altri benefici. Una regolare pratica meditativa aiuta ad aprire nuove strade creative nel cervello. Con una maggiore concentrazione, le capacità di problem-solving si fanno più originali e le idee s'introducono nella mente in modo più libero. Molti credono che Steve Jobs fosse così bravo a concepire idee fresche e innovative per Apple grazie ad una pratica meditativa regolare. Praticando regolarmente la meditazione, ed essendo uno dei primi dirigenti d'azienda ad aver adottato programmi di meditazione consapevole in ufficio, non vi è dubbio che il successo della Apple sia dovuto ad una concentrazione e un controllo metodici.

È stato dimostrato che i benefici della meditazione aiutano anche a risolvere i conflitti sul luogo di lavoro. Grazie alle pratiche di consapevolezza, i dipendenti acquisiscono una migliore capacità di gestione del conflitto e abilità interpersonali che facilitano la risoluzione dei problemi, sia per gli impiegati che per i dirigenti. Come funziona? Dopo aver effettuato un neuroimaging cerebrale su soggetti che meditano e su chi, invece, non pratica la meditazione, si è scoperto che la meditazione consapevole aiuta a innescare una risposta di rilassamento, che si oppone alla reazione "combatti o fuggi". La risposta di rilassamento può essere adottata in momenti di conflitto o stress per risolvere razionalmente invece di reagire in maniera emotiva con la reazione combatti o fuggi. I dipendenti che praticano meditazione sono consapevoli delle loro reazioni immediate e riescono ad allontanarsi più facilmente da una situazione per fare la scelta più giusta al fine di risolvere un problema. Perfezionando l'intelligenza emotiva e rimarcando l'importanza dell'ascolto tra colleghi e simili, la meditazione consapevole può ridurre il numero di conflitti che emergono sul lavoro.

Infine, uno dei maggiori vantaggi dati da un programma di meditazione sul lavoro è l'accresciuta felicità complessiva dei dipendenti. Nel 2016, si è fatto un gran parlare della "felicità dei dipendenti", perciò è importante esplorare altri modi di promuovere la felicità che non siano collegati all'idea dei kegerator da ufficio (distributori di birra) o alla misteriosa politica dei giorni di ferie illimitati. Una regolare pratica meditativa incrementa la felicità generale, l'autoconsapevolezza e la pazienza. Grandi aziende come AOL e McKinsey & Co, hanno registrato un andamento delle vendite più roseo, a dimostrazione che i benefici per la mente e lo spirito sono vantaggiosi anche per i risultati dell'azienda. A trarre beneficio dai programmi di meditazione non è soltanto il reparto vendite: i dipendenti che lavorano a contatto con i clienti sono più inclini a prendersi una pausa quando affrontano una situazione complicata o scoraggiante. Ed ecco che entra in azione la risposta di rilassamento!

Dato il successo comprovato sul luogo di lavoro, supportato da studi che dimostrano come la meditazione cambi il modo in cui il cervello elabora le informazioni per gestire al meglio stress e ansia, non stupisce che sempre più aziende si stiano conformando a questa tendenza. Che si tratti di uno spazio riservato alla pratica o di sessioni guidate di meditazione, le aziende che offrono questi programmi riportano miglioramenti nella produttività, nelle presenze e nella felicità dei dipendenti. Non sorprende che quei luoghi di lavoro attenti a ridurre lo stress e a migliorare la vita degli impiegati stiano introducendo la meditazione consapevole nelle loro proposte orientate al benessere. In fin dei conti, un dipendente calmo e sereno è il tuo miglior dipendente!

martedì 31 ottobre 2017

5 utili suggerimenti zen per avere successo sul lavoro



di PAOLO ARMELLI per CENTODIECI 
il Magazine di Mediolanum Corporate University 

“I leader delle future generazioni devono assolutamente studiare lo zen”: di questo è convinto Steve Chang, CEO del colosso mondiale della sicurezza online Trend Micro. Ma anche Steve Jobs aveva infuso i principi dello zen in Apple, a partire dal design minimale dei prodotti; o ancora Google raccomanda ai propri dipendenti di prendersi delle pause dal lavoro frenetico, magari bevendo una tazza di tè, rituale di meditazione (kissako) diffuso nella filosofia orientale. Da questi e altri esempi prende il via Manuale di un monaco buddhista per avere successo sul lavoro di Kiyohiko Shimazu, appena pubblicato da Vallardi: secondo l’autore, manager giapponese divenuto monaco buddhista dopo il terremoto del 2011, conoscere il linguaggio zen aiuta a ritrovare il ritmo giusto, stimolare la creatività, ma soprattutto conoscere sé stessi e relazionarsi meglio con gli altri.

Lo zen affonda le sue radici nel buddhismo storico nato nel V secolo in India ma, passando per la Cina, attecchisce in Giappone attorno al XII secolo. Fu solo però nel Novecento che questa filosofia uscì dai confini nazionali per diffondersi in tutto il mondo, e ora torna in terra nipponica dove sta vivendo una seconda giovinezza, in quella che Kiyohiko chiama“l’epoca del cuore e della mente”. In un periodo difficile dal punto di vista economico e finanziario, e in un Paese come il Giappone in cui le gerarchie e i valori legati al lavoro sono esasperati all’inverosimile, gli uomini d’affari si rivolgono allo zen come soluzione alla ricerca dell’essenza autentica. 

Per l’autore di questo Manuale, “il fondamento dello zen sta in una comunicazione in grado di creare un legame fra le persone”, anche perché “quando riusciamo a trovare il nostro equilibrio interiore siamo in grado di cambiare sia il presente che il futuro”. Dette così sembrano concezioni estremamente astratte, invece questo libro aiuta a percorrere la via dello zen attraverso momenti concreti, pratiche che ognuno di noi può applicare quotidianamente per rendere più equilibrato il luogo di lavoro. Vediamone alcune. 

Il saluto (Aisatsu)
Nella pratica zen si incoraggia in modo deciso il confronto, anche serrato ma sempre costruttivo, fra maestro e discepolo. Ribaltare la concezione gerarchica per cui siano sempre i sottoposti a dover salutare per primi i superiori (regola ferrea in Giappone) significa creare un luogo di lavoro più inclusivo e personale più motivato. Anche il banale gesto di salutare con cortesia e attenzione chiunque ci capiti davanti diventa un mezzo per instaurare un rapporto che possa essere sempre proficuo, di valutazione continua dei progressi e di riconoscimento dei risultati. 

Il rimprovero (Katsu) 
In un’epoca di suscettibilità sempre più accentuata, rimproverare sul luogo di lavoro sembra divenuto un tema tabù, da una parte per l’ipersensibilità di certi individui dall’altra a causa di abusi di questa stessa pratica. Eppure, rifacendosi sempre al rapporto fra maestro e allievo zen, il rimprovero racchiude in sé un sentimento di attenzione, affetto e uno stimolo per far crescere l’interlocutore. Per questo il manager illuminato deve utilizzare questo strumento con parsimonia e al momento adeguato, e compensarlo con Aigo, le parole d’affetto e motivazione. 

Il saper gettare via (Hōgejyaku) 
Sicuramente anche Marie Kondo, l’autrice del bestseller internazionale Il magico potere del riordino, si è ispirata a questo principio. Si riesce a lavorare meglio se si crea ordine attorno a sé, liberandosi di documenti accumulati, oggetti superflui, orpelli inutili. Questo vale sia in senso fisico (organizzare lo spazio equivale a organizzare la mente) ma anche a livello psicologico: liberarsi da ciò che ci frena è positivo per procedere più spediti. Ciò significa anche che non bisogna aver paura, quando davvero è arrivato il momento, di lasciare un lavoro o vendere un’attività. Liberarsi dalle cose significa essere più liberi di muoversi. 

Sedersi in modo corretto (Shikantaza) 
Sembra più un consiglio posturale, invece anche questa pratica nasconde risvolti sia pratici che mentali. Ovviamente assumere una posizione corretta quando ci si siede si connette alla meditazione, parte fondamentale della filosofia zen. Ma sta anche a significare che bisogno assumere la corretta posizione (o atteggiamento) nei confronti del lavoro: concentrarsi sugli obiettivi, dunque, senza aver paura delle complicazioni o del risultato, per migliorare così le prestazioni. Il compito dei buoni leader è quello di creare un ambiente in cui tutti riescano a star “seduti” correttamente. 

Il beneficio altrui (Riyaku) 
Dare priorità alla crescita altrui è uno dei fondamenti dell’approccio zen alla vita e al lavoro. Perché dare benefici agli altri è il primo passo per ottenerne noi stessi. Questo significa valorizzare sempre colleghi e dipendenti, perché il loro progresso equivale a quello dell’azienda tutta, ma anche al cliente: il prezzo di un prodotto, ad esempio, deve sempre essere superato dal suo valore. Questo spinge ognuno a impegnarsi al massimo verso l’utilità degli altri, e quindi verso la propria crescita personale e lavorativa. 

19 OTTOBRE 2017 

domenica 29 ottobre 2017

La pietra e il potere del suono - ARCHEOACUSTICA



Preistoria oggi di Giorgio Giordano per il SECOLO XIX

Archeoacustica

Tra pietra e suono esiste un rapporto misterioso che da sempre incuriosisce l’uomo. Da qualche tempo le strutture monumentali del passato vengono studiate dal punto di vista delle proprietà acustiche. Già nel Paleolitico superiore l’uomo “giocava” con le risonanze delle caverne: uno studio sull’arte rupestre europea, dai Pirenei francesi sino agli Urali, ha stabilito che la posizione dei dipinti all’interno delle grotte corrisponde ai punti di maggiore risonanza e dove non c’era abbastanza spazio per una figura completa sono stati disegnati dei puntini per marcare l’area. I test hanno dimostrato che la massima risonanza viene attivata dalla gamma della voce umana, più che da strumenti come flauti, fischietti o tamburi. In alcune grotte la densità dell’immagine è proporzionale alla qualità acustica, misurata in durata della risonanza o numero di echi. Le peculiarità sonore delle pietre sono state di evidente interesse anche durante le fasi successive della preistoria.
 
Il fenomeno megalitico ne rappresenta la massima celebrazione. Molte delle strutture monumentali preistoriche potrebbero essere state progettate per condurre le frequenze sonore e manipolare la mente umana, inducendo stati di percezione alterata, funzionali alle celebrazioni sacre e ai riti sciamanici. Se le risonanze nelle camere di pietra favoriscono la trance mistica, non stupisce che nel Medioevo i monaci eremiti abbiano rioccupato molte caverne e stanze ipogee preistoriche per ritirarsi in preghiera. 
 
Frequenze
 
A Gobekli Tepe, in Turchia, i pilastri umanoidi a forma di T, realizzati in calcare 11.500 anni fa, “cantano” se colpiti con il palmo della mano. Anche Stonehenge presenta interessanti proprietà: i megaliti sono stati disposti in modo che le onde sonore si rifrangano secondo uno schema, creando particolari fenomeni di propagazione acustica. La grande rivelazione sulle conoscenze degli antichi in questo campo è arrivata prendendo in esame l’ipogeo di Hal Saflieni a Malta, scavato tra il 3600 e il 2500 a.C. Si è capito che l’intenzione dei costruttori era edificare un ambiente in grado di indurre uno stato di trance attraverso la modulazione del canto. Nella cosiddetta Camera dell’Oracolo c’è una nicchia che consente di diffondere la propria voce in tutto l’ipogeo, semplicemente parlando nell’incavo con tono profondo.
 
Emettendo una modulazione di suono a 110 Hz, le attività cerebrali si spostano dall’emisfero sinistro a quello destro e si disattiva il centro del linguaggio, favorendo la meditazione. Più in generale, è stato riscontrato che le camere di pietra nei templi di Malta e Gozo presentano questo modello di risonanza, con una frequenza di 110 o 111 Hz. Pure i costruttori dell’ipogeo di Cividale del Friuli hanno voluto produrre questo tipo di effetto. Sono state effettuate misurazioni anche a Wayland’s Smithy, Chun Quoit e Cairn Euny nel Regno Unito, poi a Newgrange, Cairns e Carbane West in Irlanda. Nonostante la differenza di forme e dimensioni, le stanze all’interno di questi siti, risalenti a un periodo intorno al 3500 a.C., presentano modelli di risonanza simili, le concentrazioni avvengono nei medesimi punti, tutti gli ambienti rispondono a una frequenza tra 95 e 120 Hz.
 
In alcuni casi sono state posizionate pietre verticali per migliorare le proprietà acustiche delle camere e talvolta i disegni realizzati sulle rocce assomigliano a quelli delineati dai modelli di risonanza. Analoghe considerazioni sono state proposte a riguardo dei nuraghi e di altre stanze di pietra, di fogge diverse ed epoche anche lontane, diffuse in tutto il mondo. Un significativo fenomeno di risonanza, con una risposta a frequenze basse che perdura fino a 20 secondi dopo la fine di un canto armonico, è stato anche registrato nei tunnel di Ravne in Bosnia. In Africa, a Grande Zimbabwe, sotto le mura dell’Acropoli, è stato realizzato un passaggio in grado di condurre la voce umana sino al tempio, situato a 400 metri di distanza. 
 
Dall’altra parte dell’Atlantico
 
Analoghe conoscenze si evidenziano anche nell’America precolombiana. Il sito maya di Chichen Itza, nella penisola messicana dello Yucatan, presenta numerose particolarità acustiche: le parole sussurrate a un’estremità del Cortile della palla (161 metri di lunghezza e 66 di larghezza) sono chiaramente udibili dall’altra parte e un battito di mani può produrre nove distinti echi. La piramide di Kukulkan, nota come El Castillo, risponde alle onde sonore di un applauso rimbalzando indietro un’eco che ricorda il cinguettio dell’uccello sacro Quetzal, associato al dio Kukulkan/Quetzalcoatl. Non solo, le frequenze sonore che si producono salendo i gradini della piramide assomigliano al rumore della pioggia e questa stessa caratteristica è stata notata studiando la piramide della Luna a Teotihuacan, nel Messico centrale. Anche il complesso settentrionale di Palenque è particolarmente adatto a diffondere la voce umana e i suoni prodotti dagli strumenti musicali rinvenuti in loco. Nel sito andino di Chavin de Huantar, in Perù, esiste un collegamento acustico tra la piazza circolare del centro cerimoniale e uno degli ambienti sotterranei del cosiddetto Tempio antico, dove sorge il Lazon, una stele monolitica che raffigura la divinità principale del luogo: è stato costruito un condotto che amplifica una determinata gamma di suono, in particolare le frequenze della voce umana e quelle della caratteristica trombetta a forma di conchiglia marina in uso all’epoca.