giovedì 31 luglio 2014

Pregare, meditare… guarire


di Marco Mozzoni 
http://www.olistic.it/salute/pregare-meditare-guarire/ 
http://www.amadeux.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=11737 


   La fede religiosa e la spiritualità possono influire sullo stato di salute di una persona? Almeno l’80% dei pazienti intervistati in uno studio multicentrico pubblicato in questi giorni sull’Australian Health Review ne è convinto. Il campione indagato è particolarmente interessante perché composto da australiani in buona parte non nativi, provenienti da 35 diversi paesi del mondo, rappresentanti dunque di un ampio ventaglio di culture e fedi. Fra loro vi sono cattolici, protestanti, ortodossi, buddisti, musulmani, ma anche chi si dichiara «spirituale, non religioso». 

   Tutti sentono il bisogno di poter partecipare alle proprie pratiche devozionali anche durante il periodo del ricovero: pregare, partecipare a cerimonie, leggere testi sacri, ascoltare musica, meditare, accendere candele e incensi, conversare con religiosi su temi spirituali e via dicendo. Queste abitudini sono considerate «un valido aiuto, in particolare durante gli stati di malattia, perché aumentano il senso di benessere, danno forza e conforto, rinfrancano l’appartenenza alla comunità, offrono una guida sicura, facilitano la riflessione sul significato della propria condizione, riducono ansia, paura e sconforto». 

   E i medici cosa pensano in proposito? Sembrano lontani i tempi in cui Freud paragonava la religione a una nevrosi… Dei 2.000 intervistati in uno studio dell’Università di Chicago, il 56% ritiene infatti che l’influsso di religione e spiritualità sulla salute sia «generalmente positivo» e consenta ai pazienti di fronteggiare al meglio la malattia (76%), anche se – come precisa l’82% degli psichiatri – a volte può essere causa di emozioni negative che ne accentuano la sofferenza. Al termine di un’ampia rassegna, Harold Koenig della Duke University è giunto a questa conclusione: «Delle migliaia di studi scientifici che hanno indagato i rapporti fra religione e salute, la gran parte riporta associazioni positive”. 

   Una ricerca della California Public Health Foundation di Berkeley, che ha seguito 5.000 adulti per 30 anni, ha dimostrato ad esempio che un’assidua partecipazione alle funzioni religiose può ridurre il rischio di mortalità del 36%. Lo stesso è emerso da una indagine dell’Università del Texas su 20mila americani, il cui impegno nei servizi religiosi avrebbe concesso loro fino a 14 anni di vita in più. Una meta-analisi di 42 studi condotta dall’Università di Miami su un campione di 126mila persone ha messo in luce che «quelle religiosamente attive avevano il 29% di probabilità in più di sopravvivenza nel periodo considerato, rispetto al resto della popolazione». Il rapporto positivo fra spiritualità ed esiti di trattamento (“outcome”), in particolare nell’ipertensione, nei disturbi cardiovascolari, nelle complicazioni chirurgiche, nei disturbi endocrini e immunitari, nelle tossicodipendenze, nei disturbi mentali e nel dolore cronico è stato evidenziato in più occasioni dalla rivista dell’Associazione dei medici di famiglia americani. 

   L’Università di Boston ha dimostrato l’efficacia delle pratiche orientali su un campione di 30 pazienti sofferenti di dolore cronico che, a 12 settimane, riuscivano a fare minor uso rispetto ai soggetti di controllo di analgesici (13% contro il 73%) e di oppiacei (0%-33%), con un miglioramento delle condizioni mediche generali (73%-27%). Una recente ricerca condotta in California su un campione di 1.844 sopravvissuti al cancro ha dimostrato una elevata adozione da parte loro (66%) di forme religiose e spirituali nel contesto della medicina complementare alternativa. 

   All’Università del Texas sono stati riscontrati in un gruppo di 84 donne con carcinoma mammario effetti positivi della preghiera sul benessere fisico, non solo psicologico, delle pazienti. E il sorprendente risultato a cui è giunto il professor Candy Gunther Brown del Dipartimento di Studi religiosi della Bloomington Indiana University è che pregare per la guarigione di un’altra persona, specialmente se lo si fa a stretto contatto con il malato, provoca un inspiegabile, effettivo, tangibile miglioramento delle sue condizioni di salute, miglioramenti molto più rilevanti di quelli tipici da suggestione o ipnosi. 

   Una rassegna di studi realizzata dalla Stanford University ha documentato l’effetto della musicoterapia nella riduzione del dolore legato a interventi oncologici invasivi e al trattamento con chemioterapia. Nel nostro Paese, uno studio pilota coordinato dall’oncologo Paolo Lissoni e pubblicato sulla rivista “In Vivo” ha dimostrato che «L’approccio psicospirituale al trattamento del cancro è stato in grado di aumentare l’efficacia della chemioterapia migliorando il decorso clinico della neoplasia e la probabilità di sopravvivenza a 3 anni in un gruppo di 50 pazienti con tumore al polmone, riuscendo a stimolare significativamente la risposta immunitaria anticancro mediata dai linfociti». 

   Nuove evidenze sperimentali dell’effetto delle pratiche spirituali sul cervello arrivano anche dalla disciplina emergente delle neuroscienze contemplative: «È stato dimostrato che i sistemi biologici periferici con un ruolo decisivo nella salute di un individuo possono essere modulati dai circuiti cerebrali sui quali agisce la meditazione», spiega Richard Davidson, ricercatore dell’Università del Wisconsin. La meditazione, sperimentata nel contesto sanitario sin dai primi anni '60 a opera di Herbert Benson, cardiologo dell’Università di Harvard, sarebbe in effetti in grado di influire sui ritmi elettrici del cervello, sulla frequenza cardiaca e respiratoria, finanche sul metabolismo. Negli anni è stata utilizzata con successo in sede di trattamento del dolore cronico, dell’insonnia, degli stati ansioso-depressivi, della sindrome premestruale, dell’infertilità e nell’ambito della terapia oncologica complementare. 

   In Italia la meditazione è stata recentemente adottata come strumento d’elezione in un «percorso di riduzione degli effetti collaterali della chemioterapia destinato a pazienti con carcinoma mammario». Messo a punto dall’Ospedale Bellaria di Bologna, il progetto sarà attivato a breve anche al San Carlo di Milano e alle Molinette di Torino

   E per le malattie che ancora non possiamo curare, come l’Alzheimer? «Dove non c’è cura, può esserci spazio per l’accettazione della propria condizione, in vista di una pacificazione con se stessi e con il mondo – sottolinea Christina Puchalsky della George Washinghton University – ed è proprio la dimensione spirituale a consentirci di mantenere un senso di vita e di coerenza personale di fronte a cambiamenti drammatici». 

  Dal canto suo il professor Giorgio Lambertenghi, presidente dell’Associazione medici cattolici di Milano, pur lontano dall’approccio anglosassone che, a suo dire, «utilizzerebbe la spiritualità alla stregua di un antibiotico, di un salvavita, agente al massimo come un placebo», si dice convinto che «la formazione del medico dovrebbe essere completata anche da una adeguata preparazione filosofica, in modo da riuscire a prendere in carico la persona nella sua integrità fisica, psicologica e spirituale». 

mercoledì 30 luglio 2014

Meditazione può essere integrata nelle neuroscienze



Traduzione di Franco Pellizzari


   La meditazione è da tempo raccomandata nell'ambito delle modifiche allo stile di vita che hanno una possibilità di scongiurare o posticipare l'insorgenza della demenza

   Essa costituisce anche un metodo per ridurre ansia, depressione, burnout del caregiver e può aiutare a superare le difficoltà quotidiane insite nel prendersi cura di un paziente di Alzheimer. 

   La meditazione focalizzata su un elemento apparentemente semplice (tipo il respiro) può produrre stati mentali significativamente diversi nei meditatori, con differenze che possono ora essere quantificate più facilmente ed esattamente. 
  La consapevolezza è sempre personale e spesso spirituale, ma l'esperienza della meditazione non deve essere soggettiva. 

   I progressi nella metodologia stanno permettendo ai ricercatori di integrare le esperienze di consapevolezza con le scansioni cerebrali e con dati del segnale neurale, per formare ipotesi verificabili sulla scienza (e i benefici per la salute mentale conseguenti) della pratica. 

  Un team di ricercatori della Brown University, guidato da Juan Santoyo, presenterà il proprio approccio di ricerca alla 12a Conferenza Annuale Scientifica Internazionale del Center for Mindfulness della Medical School alla University of Massachusetts. La loro metodologia usa una codifica strutturata delle relazioni che i meditatori forniscono sulle loro esperienze mentali. Che può essere rigorosamente correlata con le misure neurofisiologiche quantitative.

   "Nelle neuroscienze della consapevolezza e della meditazione, uno dei problemi che abbiamo avuto è non capire le pratiche dall'interno verso l'esterno", ha detto il co-presentatore Catherine Kerr, professore assistente di ricerca della medicina famigliare e direttore di neuroscienze traslazionali alla Contemplative Studies Initiative della Brown. "Quello di cui abbiamo davvero bisogno sono meccanismi migliori per generare ipotesi verificabili, clinicamente rilevanti ed esperienziali"

   Ora i ricercatori stanno ottenendo gli strumenti per rintracciare le esperienze descritte da meditatori su attività specifiche nel cervello. "Vedremo come questo possa essere applicabile come strumento generale per lo sviluppo di trattamenti mirati per la salute mentale", ha detto Santoyo. "Possiamo esplorare come certe esperienze si allineano con certi modelli di attività cerebrale. Sappiamo che alcuni modelli di attività cerebrale sono associati con alcuni disturbi psichiatrici"


Strutturare lo spirituale
   Alla conferenza, il team inquadrerà queste vaste implicazioni con quella che potrebbe sembrare una piccola differenza: i meditatori si concentrano sulle loro sensazioni di respirazione nel naso o nella pancia. Le due tecniche di meditazione provengono da diverse tradizioni dell'Asia orientale. I dati codificati dell'esperienza, raccolti accuratamente da Santoyo, Kerr, e Harold Roth, professore di studi religiosi alla Brown, mostrano che le due tecniche producono stati mentali significativamente diversi negli studenti meditatori. 

   "Abbiamo scoperto che, quando gli studenti si concentrano sul respiro nel ventre le loro descrizioni di esperienze sono incentrate sull'attenzione alle aree somatiche e su sensazioni corporee specifiche", hanno scritto i ricercatori nel loro estratto per la conferenza. "Quando gli studenti descrivono esperienze pratiche relative a un focus sul naso durante la meditazione, tendono a descrivere una qualità della mente, in particolare come si è «sentita» la loro attenzione quando l'hanno percepita"

 La capacità di delineare la distinzione rigorosa tra le esperienze è venuta non solo assegnando casualmente gli studenti che meditavano a due gruppi (uno focalizzato sul naso e uno sulla pancia) ma anche impiegando due codificatori indipendenti per eseguire le analisi standardizzate delle note prese dagli studenti subito dopo aver meditato. 

 Questo tipo di codifica strutturata dell'esperienza personale auto-riferito si chiama «grounded theory methodology». La sua applicazione da parte di Santoyo alla meditazione consente la formazione di ipotesi. Ad esempio, Kerr ha detto: "Sulla base delle descrizioni prevalentemente somatiche delle esperienze di consapevolezza offerte dal gruppo focalizzato sulla pancia, ci aspetteremmo in questo gruppo una connettività funzionale in stato di riposo più costante nelle diverse parti di una grande regione del cervello chiamata insula, che codifica le sensazioni somatiche viscerali e fornisce anche una lettura degli aspetti emotivi dei cosiddetti «sentimenti viscerali»"


L'esperienza unificante e il cervello
   Il passo successivo è correlare i dati codificati delle esperienze con i dati del cervello stesso. Un team di ricercatori guidato da Kathleen Garrison alla Yale University, compresi Santoyo e Kerr, ha fatto proprio questo in un documento pubblicato su Frontiers in Human Neuroscience di agosto 2013. La squadra ha lavorato con meditatori profondamente esperti per correlare gli stati mentali che avevano descritto nella meditazione di consapevolezza, con l'attività simultanea della corteccia cingolata posteriore (PCC). L'hanno misurata in tempo reale con la risonanza magnetica funzionale. 

 Essi hanno scoperto che, quando i meditatori di varie tradizioni diverse riportavano sentimenti di "fare senza sforzo" e "consapevolezza attenta" durante la meditazione, il loro PCC mostrava poca attività, ma quando riferivano di essersi sentiti distratti e avevano dovuto lavorare sulla consapevolezza, il loro PCC era significativamente più attivo. Data la possibilità di osservare il feedback in tempo reale sulla loro attività PCC, alcuni meditatori sono anche riusciti a controllare i livelli di attività. "Si possono osservare entrambi questi fenomeni insieme e scoprire come essi si co-determinano l'uno con l'altro", ha detto Santoyo. "Dopo 10 sessioni da un minuto sono riusciti a sviluppare alcune strategie per evocare una certa esperienza e usarle per guidare il segnale".

Verso le terapie
   Il tema della conferenza, e un motivatore chiave della ricerca di Santoyo e Kerr, è il collegamento di tale ricerca con dei benefici tangibili nelle prestazioni mediche. I meditatori evidenziano da tempo tali benefici, ma il sostegno da parte di neuroscienze e psichiatria è arrivato molto più di recente.  

   In uno studio di febbraio 2013 presente in Frontiers in Human Neuroscience, Kerr e colleghi hanno proposto che, proprio come i meditatori possono controllare l'attività del PCC, i praticanti della consapevolezza possono ottenere un maggiore controllo su ritmi corticali alfa sensoriali. Quelle onde cerebrali aiutano a regolare il modo in cui il cervello elabora e filtra le sensazioni, compreso il dolore, e i ricordi, come le cognizioni depressive. 

   Santoyo, la cui famiglia emigrò dalla Colombia quando era bambino, è stato ispirato a studiare il potenziale della consapevolezza per aiutare la salute mentale, a partire dal liceo. Cresciuto a Cambridge e a Somerville in Massachusetts, ha osservato le difficoltà psichiatriche della popolazione dei senzatetto della zona. Li ha anche incontrati mentre lavorava nel servizio di ristorazione dell'ospedale di Cambridge. Nelle comunità a basso reddito si vedono sempre molti disturbi alla salute mentale non trattati", ha detto Santoyo, che medita regolarmente e aiuta a guidare un gruppo di consapevolezza alla Brown. 

   Egli sta perseguendo una laurea in neuroscienze e scienze contemplative. "La prospettiva della teoria contemplativa è che impariamo a conoscere la mente osservando l'esperienza, non solo per solleticare la nostra fantasia, ma per imparare a guarire la mente". E' un percorso lungo, forse, ma Santoyo ed i suoi collaboratori lo stanno percorrendo facendo progressi. 

martedì 29 luglio 2014

Stato vegetativo, “risveglio” possibile? Le novità dalla ricerca italiana



da ResearchItaly 
27 Luglio 2014 

Per l'art. originale copia/incolla qui: 
https://www.researchitaly.it/conoscere/progetti-e-storie-di-successo/interviste-e-testimonianze/stato-vegetativo-risveglio-possibile-le-novita-dalla-ricerca-italiana/ 

   Neurobiologia e trattamento dei disordini della coscienza è l’argomento dello “speciale” pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Current Pharmaceutical Design con il coordinamento editoriale di Francesca Pistoia, ricercatrice presso il dipartimento di Neurologia dell’Università de L’Aquila e presso l’Unità di Neuroriabilitazione ad Alta Intensità (UNAI) del San Raffaele Cassino, che ospita pazienti con gravi lesioni cerebrali in coma, in stato vegetativo e in stato di minima coscienza. 
   Lo special issue affronta in particolare gli aspetti farmacologici del trattamento dei pazienti in stato vegetativo, facendo il punto sui risultati conseguiti dal gruppo di ricerca di Cassino, diretto dal neurofisiopatologo Marco Sarà (nella foto), responsabile del reparto di Neuroriabilitazione di Alta Specialità, che abbiamo intervistato. 

   Dottor Sarà, in sintesi, quali sono le novità dalla ricerca sui disordini di coscienza che presentate nello speciale? 
   Il concetto chiave, e che ritengo sia anche il più intrigante, riguarda il ruolo dei sistemi inibitori nella genesi della consapevolezza di ciò che avviene e nella capacità di immaginare. Intuitivamente siamo portati a considerare un fenomeno come la coscienza il risultato di una “attività”, l’accensione di qualcosa nel cervello (localizzata o diffusa che sia) di specifico e “unico” della coscienza. Se permette un’analogia sarebbe come progettare auto sportive dimenticandosi di aggiornare l’impianto frenante in modo proporzionale alle maggiori performance del motore ecc. Come abbiamo già avuto occasione di raccontarci, quando noi vediamo una cosa si “accendono” le aree della visione più una serie di altre aree, ma se immaginiamo la stessa cosa viene fuori qualcosa di davvero interessante: si accendono le aree della vista ma ne vengono inibite una grande quantità di altre.  E’ come se il campo visivo della coscienza fosse più ristretto della visione “passiva” di qualcosa. Molti anni fa mi venne il seguente aforisma: l’uomo è una creatura provvista di un cervello capace di elaborare in parallelo una quantità enorme di cose eppure riesce a pensare ad una/due la volta.  Nell’esperienza clinica era sempre più ovvio che i pazienti con SV o MCS quasi mai hanno bisogno di stimoli ma piuttosto di “spazio silenzioso intorno a loro”. Insomma per essere consapevoli di “A” dobbiamo inibire molte altre lettere almeno per un po’. Questo Special Issue ha il pregio di averci raccolti in parecchi intorno alla riflessione sul ruolo dei farmaci e, in particolare, cercare di confrontarci sul fatto che alcuni soggetti rispondono con farmaci “eccitanti” ed altri a farmaci “inibitori” come lo zolpidem (che è un sonnifero) oppure “addormentando il midollo spinale” o, ancora, farmaci antiparkinsoniani! 
   Dunque, mi sembra di capire che c’è una estrema variabilità fra i pazienti, cioè sono molto diversi fra loro… 
   Sì, questi pazienti non sono diversi fra loro soltanto per la distribuzione delle lesioni ma anche per la risposta ad una terapia piuttosto che un’altra. Insomma è ovvio che (pur esitando in una non-responsività) hanno situazioni patologiche sottostanti molto diverse fra di loro! So bene che c’è chi è più affezionato a pensare ad una “malattia della coscienza in sé” ma non è quasi mai così. Ne viene fuori che, accanto alla scuola “integrativa”, che enfatizza gli aspetti relativi all’interconnesione fra aree cerebrali distinte (un approccio che ci ha permesso di formulare un metodo prognostico robusto già ormai da diversi anni), nasce adesso un nuovo modo di vedere questa condizione e che tenta di rispondere alla seguente domanda: perché il cervello non riesce a “convergere” la sua attività e inibire quella superflua / disturbante? In altri termini, nella terapia abbandoniamo il concetto della connettività e riprendiamo quello della multi-localizzazione delle lesioni appena descritto. 
   In che modo è possibile “recuperare” questi pazienti, almeno in parte? 
   Per punti: 
1) È indispensabile comprendere la costellazione di lesioni caratteristica di quel paziente e quindi agire di conseguenza. In altri termini il primo errore da non fare è la prima cosa giusta che si può fare: evitare di uniformarli, meno che mai riferendoci al concetto di non responsività (che mette insieme dormienti, comatosi, locked-In, Stati Vegetativi e Minimally Conscious State e pazienti sotto l’effetto di anestetici, il piccolo male e via dicendo: creando ulteriore confusione). 
2) Una volta individuata la “sottosindrome” trattarla se è possibile. E questo è realizzabile solo in una sottocategoria di soggetti al momento. Non esiste una cura dello Stato Vegetativo ma diversi approcci in situazioni particolari. 
3) Per quanto ci riguarda ne abbiamo sperimentati direttamente (per la prima volta) due (infusione intratecale di baclofene e facilitazione corticomotoria) e adottiamo tutti quelli che ci è possibile realizzare per davvero. 
4) Individuare al più presto i paziente con prognosi sfavorevole ed essere chiari con chi li ama (anche dire “non c’è nulla da fare” è compito del medico). 
 Gli “approcci” che lei descrive rappresentano soltanto metodiche d’avanguardia o sono già una realtà clinica ampiamente disponibile? 
   Assolutamente no: se ci pensa infatti, si tratta di una sorta di “passo indietro strategico”. Si era davvero andati oltre il buon senso con le teorie quantistiche, super-emergentistiche ecc. dal momento che l’obiettivo è quello di curare una patologia. Mi lasci aggiungere che nessuno ha mai definito esaustivamente cosa sia la coscienza; al momento rappresenta un ambito molto chic delle neuroscienze ma nulla di avente a che fare con il curare. La medicina pratica è invece “abituata” ad occuparsi di questioni delle quali ha una conoscenza parziale, a volte siamo bravissimi a risolvere problemi di cui pochissimo sappiamo e ci dimostriamo impotenti davanti a questioni apparentemente chiarissime. Di moltissimi farmaci non è ancora chiarito il meccanismo di azione, molte scoperte sono empiriche. Insomma la medicina non ha un corpus teorico unico e ben definito, come la fisica, intorno al quale si discute con vari approcci. La medicina è più una babele di approcci diversi, aree in cui vigono certezze ed altre sfumate e difficilissime da tenere a bada e rendere prevedibili. Per quanto riguarda la disponibilità siamo “a macchia di leopardo” sia a livello regionale che nazionale. I costi non sono enormi (quasi mai lo sono quelli del buon senso) ma enorme è il numero di filosofie diverse con cui queste problematiche vengono affrontate. 
   Interessante… Quanto costa – in termini di degenza, strumenti e personale specializzato – tenere in piedi una struttura riabilitativa di questo tipo? 
   Troppo, e non sono convinto che le diverse Regioni abbiano focalizzato la dimensione e la profondità della problematica. 
   Quante strutture in Italia offrono questo tipo di assistenza ai pazienti con disordini di coscienza? 
   Questa è la domanda più difficile che mi ha fatto. La sanità è di competenza regionale e quindi le “regole di ingaggio” sono molto diverse nella varie aree del Paese. Sono rimasto sorpreso dell’atteggiamento di alcune Regioni considerate “virtuose” perché stanno nel budget ma, sotto alcuni aspetti, sono molto sbrigative e presto si fa ad andare a finire in strutture residenziali. Spero che il Lazio, proprio in quanto fra gli ultimi a muoversi, dimostri di aver coscienza (appunto) dei molti modelli possibili e che sappia adottare quello più a vantaggio dei cittadini. 
   Relativamente al suo ambito di interesse medico e scientifico, come valuta la ricerca italiana rispetto all’Europa e al resto del mondo? 
   La ricerca italiana, nonostante la politica, tiene duro e si continua a distinguere. Mi lasci aggiungere una considerazione sulla cosiddetta “fuga dei cervelli”: sta diventando così un luogo talmente comune da essere soffocante. In questa fase storica quello che mi preoccuperebbe di più è l’eventuale “ritorno dei cervelli”; se prima non riusciamo a contenere familismi e clientelismi, temo più per quelli che tornano rispetto a quelli che partono. In ogni caso, della ricerca si beneficia in tutto il mondo in termini di risultati ma limitatamente al campo medico e poco altro. Brevetti ed altre “perle” non penso stiano mordendo il freno per tornare in Italia. 
   In ultimo, ci spiega che cosa si intende per ricerca traslazionale e perché è così importante nel vostro campo? 
   La ricerca traslazionale è quella più “vicina al letto dell’ammalato” e quindi caratteristica dei luoghi dove si cura e si studia come curare. 

lunedì 28 luglio 2014

"Eat for Life", "la dieta migliore è una non-dieta basata sulla meditazione"




di Ilaria Betti, L'Huffington Post


La ricerca pubblicata sull'American Journal of Health Promotion 

   Dimagrire è spesso un percorso ad ostacoli, costellato di tentazioni e di rinunce. Dopo aver detto no all'ennesima pizza con gli amici (e dopo esserci concessi l'ennesima insalata), saliamo sulla bilancia e il risultato non ci soddisfa. Qual è il problema? "Chiediamo troppo a noi stessi. Il miglior modo per fare la dieta, invece, è non pensare di fare la dieta", dicono i ricercatori della University of Missouri. Per far scendere il nostro peso dovremmo, insomma, pensare al cibo in maniera rilassata. Perché tutto parte dalla nostra mente. 
   La ricerca, pubblicata American Journal of Health Promotion, porta avanti un nuovo metodo per "dimagrire stando bene con se stessi": si chiama "Eat for Life" (letteralmente "Mangia per vivere") e si basa sulla meditazione e sulla consapevolezza di ciò che mettiamo in bocca. 
   "Dovremmo approcciarci alla dieta come ad una non-dieta - dice la psicologa Lynn Rossy, che ha condotto lo studio - le diete tradizionali sono tutte puntate sul perdere peso. E all'inizio ci riescono. Ma accade spesso che le persone non riescano a controllarsi per troppo tempo e che tornino indietro, riacquistando tutti i chili persi. Che senso ha un programma del genere?". 
   Gli studiosi hanno chiesto ai partecipanti alla ricerca di non pesarsi per dieci settimane, l'intero arco di tempo di durata della sperimentazione. L'eliminazione dell'"ansia da bilancia" rientrava nell'obiettivo di creare una relazione positiva con il proprio corpo. Tramite il cosiddetto "intuitive eating" ("mangiare consapevole"), coloro che si sono sottoposti alla ricerca hanno imparato a fare esperienza delle loro sensazioni interne, come il senso di pienezza e di fame, e hanno, al contrario, abbandonato tutti gli "attacchi" esterni, come il conteggio delle calorie e del peso. 
   "Per riuscire a dimagrire l'aiuto più grande viene dalla nostra mente, dalla meditazione", spiega la psicologa Rossy. "Dopo dieci settimane, tra le donne che hanno partecipato al programma non sono stati riscontrati disordini alimentari, che spesso sono conseguenza di alcune diete sbagliate. Come i Binge Eating Disorders, che colpiscono le pazienti obese: pur detestando il loro peso e le loro rotondità, sono assalite da desiderio incontrollabile di cibo senza essere particolarmente affamate e mangiano in maniera illogica, nonostante desiderino dimagrire. 
   "Eat for Life non è solo per persone con disturbi alimentari - spiega l'autrice dello studio - è per tutti coloro che vogliano imparare a conoscere e apprezzare il valore del nostro corpo". 

domenica 27 luglio 2014

Salute, meditazione per ridurre il dolore


di CittaOggiWeb


Lo studio, del Wake Forest Baptist Medical Center Meditation: le tecniche di rilassamento anestetizzano le sensazioni dolorose
  

   Apprendere le tecniche del rilassamento aiuta - in una sola ora - a "spegnere" le sensazioni dolorose dal 40% al 57%. Almeno secondo i ricercatori del Wake Forest Baptist Medical Center Meditation, che hanno condotto uno studio. 

   La ricerca ha osservato 15 volontari sani, vergini di attività meditativa. Il gruppo ha seguito quattro lezioni di 20 minuti ciascuna per apprendere la tecnica di attenzione focalizzata, una forma di meditazione in cui si è invitati a concentrarsi sul proprio respiro distraendosi da pensieri ed emozioni. 

   L’attività cerebrale dei volontari è stata controllata prima e dopo le lezioni attraverso la risonanza magnetica ASL, una particolare tecnica di visualizzazione che rileva processi cerebrali di più lunga durata rispetto a quella standard. 

   Durante la scansione, un'apparecchiatura posta sotto una gamba dei soggetti produceva per 5 minuti calore che raggiungeva i 50°, causando dolore su una zona della pelle. 

   Le scansioni successive alle sedute di meditazione mostravano una riduzione del livello di dolore provato dai volontari compresa l'11 e il 93 per cento: un notevole effetto analgesico, dunque. 

   In particolare, le osservazioni hanno evidenziato una diminuzione significativa dell'attività della corteccia somato-sensoriale, area fortemente coinvolta nella genesi della sensazione di dolore.

   Lo studio ha, inoltre, mostrato che la meditazione aumenta l'attività in altre aree, fra cui quelle del cingolo anteriore, dell'insula anteriore e della corteccia fronto-orbitale. 

   "Quanto più queste aree erano attivate, quanto più risultava ridotta la sensazione di dolore”, spiegano gli esperti. Questo perché “tutte queste aree plasmano il modo in cui il cervello costruisce l'esperienza del dolore a partire dai segnali nervosi provenienti dal corpo”, concludono i ricercatori.


   Una delle ragioni per cui la meditazione può essere così efficace contro il dolore, quindi, è il suo agire a più livelli e non, piuttosto, su una singola regione del cervello. 

sabato 26 luglio 2014

Neuroscienze e trappole nella ricerca: occhio alla bufala (e al salmone)



di Luciano Canova 
http://www.greenreport.it/news/scienze-e-ricerca/neuroscienze-e-trappole-nella-ricerca-occhio-alla-bufala-e-al-salmone/ 


Un’affascinante storia sui progressi e gli errori della scienza, vista dall’interno dei laboratori


   Lo sviluppo delle neuroscienze, insieme alla dinamica esponenziale con cui crescono le capacità computazionali, ha rappresentato e rappresenta per la ricerca accademica un’enorme opportunità, come dimostra il crescente numero di pubblicazioni a livello mondiale nel ramo. 
   Il potenziale è sicuramente alto: riuscire a mappare il cervello in vivo con immagini sempre più precise in termini di risoluzione e potere, allo stesso tempo, effettuare test statistici robusti sulle stesse immagini offre l’opportunità, in prospettiva, di fondare una scienza della decisione e dell’analisi del comportamento con basi neurologiche empiriche incontestabili. 
   Come ogni scienza giovane, tuttavia, serve calma e molta prudenza, soprattutto laddove l’approccio neuro-scientifico è utilizzato per altre discipline, quali l’economia. E la prudenza è suggerita dagli stessi neuro-scienziati. La scorsa estate, durante il mio breve periodo di visiting al Laboratorio del Professor Martin Monti (UCLA), un ricercatore del gruppo, Evan Lutkenhoff, mi illustrava la metodologia rigorosissima con cui vengono effettuati gli esperimenti all’interno del laboratorio. 
   E mi ha fatto leggere, come caveat da tenere sempre in mente, un articolo scientifico molto famoso all’interno della comunità accademica che fa studi attraverso l’fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), la risonanza magnetica funzionale. 
   L’articolo è stato pubblicato da una rivista che ha un titolo molto divertente: Journal of Serendipitous and Unexpected Results. La questione però è estremamente seria. È un lavoro ormai vecchio di 4 anni, che avvertiva rispetto al rischio, nell’utilizzo di questa tecnologia, di incorrere con una probabilità non trascurabile in quello che viene chiamato errore del false positive (falso positivo), l’errore di chi afferma l’esistenza di una relazione statistica tra due variabili quando, invece, questa relazione non esiste. 
   Craig Bennet, autore dell’articolo, dell’Università di California (Santa Barbara) effettuò lo studio su un cervello che veniva sottoposto a scansione e che mostrava un’attività neuronale molto forte. 
   Il cervello era quello di un bel salmone lungo diciotto once e del peso di tre libbre e mezzo. 
   Il piccolo particolare è che il salmone era morto. 
   In realtà, non c’è nessun miracolo nel trovare vita in un cervello morto: l’intento di Bennet era proprio quello di avvisare i ricercatori della comunità accademica sulla possibilità di incorrere facilmente in madornali cantonate. Nulla di male: lo stesso autore ricorda pure che esistono molteplici tecniche statistiche adatte a correggere l’errore ed Evan, a distanza di anni, mi diceva che il problema è stato ampiamente risolto. 
   Il fatto, tuttavia, rappresenta ancora una volta un monito: la ricerca scientifica va fatta con rigore e metodo. 
   Bennet, infatti, mostra dei dati inquietanti nell’introduzione del suo articolo: tra gli articoli pubblicati nel 2008 all’interno delle principali riviste neuro-scientifiche, il 26% di quelli usciti su NeuroImage commetteva lo stesso errore di metodologia volutamente simulato da Bennett con il cervello del salmone; la percentuale saliva a 32,5% per Cerebral Cortex e al 40% per Social Cognitive and Affective Neuroscience
   Ora, veniamo all’economia. Se la ricerca neuro-scientifica è ancora agli albori e avanza con prudenza sulla stimolante strada del progresso, la disciplina economica dovrebbe esercitare il doppio della prudenza, non foss’altro per una mera ragione pratica che introduce l’ultimo ragionamento di questo articolo. 
   Faccio mie alcune osservazioni di Ariel Rubinstein, dell’Università di Tel Aviv, uno dei padri della teoria dei giochi comportamentale. Rubinstein mostra prudenza nei confronti delle ricerche neuro-scientifiche in ambito economico per una questione non banale: il costo di queste ricerche. 
   A parte la necessità di disporre di una macchina per la risonanza magnetica funzionale (il che, già, per un dipartimento di Economia non integrato in un polo ospedaliero, rappresenterebbe un investimento enorme), sottoporre un cervello umano a scansione per un’ora costa 600 dollari circa. 
   Gli studi neuro-scientifici si basano su un campione di osservazioni spesso non superiore alle 50 unità (per ovvie ragioni), il che ovviamente esclude ogni rappresentatività del campione. 
   Ora, Rubinstein dice: quando uno studio neuro-economico è fatto bene (e ce ne sono, come mostrano i lavori di Benedetto De Martino, già intervistato su questo giornale), il più delle volte riesce a replicare con una metodologia innovativa risultati già noti all’economia sperimentale, le cui ricerche, pur onerose, costano molto meno (20-30 dollari a soggetto reclutato). 
   Quando è fatto male, però, rischia di prendere, in parole potabili, una cantonata clamorosa. 
 La ricerca neuro-scientifica, insomma, rappresenta un’opportunità incredibile di avanzamento nella conoscenza di quella black box che è ancora il cervello umano. Gli investimenti non sono solo utili, ma necessari per migliorare le tecniche di analisi e ottenere risultati importanti. Tuttavia, varrebbe la pena di non lasciarsi andare a troppo facili entusiasmi, perché l’unico miracolo sarebbe quello di moltiplicare i pesci morti resuscitati. 

venerdì 25 luglio 2014

La Consapevolezza aiuta a mantenere sana la mente


Foto: ©photoxpress.com/Bergé
a cura di [lm&sdp]
   La cosiddetta meditazione “Mindfulness”, o Consapevolezza, è stata rivisitata da un team di esperti che ne conferma scientificamente l’efficacia nel mantenere o ritrovare il benessere mentale e, infine, anche fisico e migliorare la qualità della vita. 

   Pubblicato sull’ultimo numero di Frontiers in Human Neuroscience, è il lavoro degli esperti del Brigham and Women’s Hospital (BWH) di Boston (Usa) in cui si propone un nuovo modello che cambia il modo di vedere e approcciarsi alla Mindfulness, o Consapevolezza. 

   La Mindfulness, è una forma semplice di meditazione che intende far diventare padroni del momento in cui si vive (quello presente) e, pertanto, della propria vita. 

   La Consapevolezza, così come spesso interpretata, si ritiene limitata a una sola dimensione della conoscenza. Al contrario, gli scienziati del BHW hanno dimostrato che la Consapevolezza implica in realtà un ampio quadro di complessi meccanismi del cervello, supportando la tecnica e i suoi effetti con la scienza. 

   Si è così dimostrato come il raggiungimento della Consapevolezza attraverso la meditazione abbia aiutato le persone a mantenere in salute la propria mente. Costoro sono in grado di controllare emozioni e pensieri negativi come il desiderio, la rabbia e l’ansia. Per converso sono in grado di incoraggiare disposizioni maggiormente positive come la compassione, l’empatia e il perdono. 

  La Mindfulness dunque funziona – e lo provano ormai numerosi studi e i molti manuali usciti a opera di diversi esperti. Tuttavia, come funzioni esattamente è ancora un mistero, anche per gli scienziati. 

   Questo nuovo modello è stato recentemente presentato a Sua Santità il Dalai Lama durante un incontro privato. Lavoro che prendeva il titolo di: “Mind and Life XXIV: Latest Findings in Contemplative Neuroscience”. 

   In questo innovativo lavoro, i ricercatori hanno identificato una serie di funzioni cognitive che sono attive nel cervello durante la pratica della Consapevolezza. Sebbene, come detto, non si sappia ancora spiegare il perché di questo fenomeno, dette funzioni cognitive aiutano la persona a sviluppare la consapevolezza di sé, l’auto-regolamentazione e l’auto-trascendenza (S-ART), che costituiscono il quadro di trasformazione per il processo di Consapevolezza. 

   In questo quadro di meccanismi scientificamente accertati, i ricercatori sono stati capaci di evidenziare 6 processi neuropsicologici, o meccanismi attivi nel cervello durante la pratica della Consapevolezza e che supportano il processo S-ART. 

   I processi iniziano partendo dall’intenzione e la motivazione a voler raggiungere la Consapevolezza, seguita da una presa di coscienza delle proprie cattive abitudini. Una volta che questi processi sono fissati, la persona può iniziare a controllare se stesso e le proprie emozioni. In particolare la persona riesce a essere meno reattiva emotivamente e recuperare più velocemente dai possibili turbamenti conseguenti alle emozioni negative. 

   Attraverso la pratica continua – spiega nella nota BHW il principale autore dello studio, dottor David Vago – la persona può sviluppare una distanza psicologica da ogni pensiero negativo e può inibire gli impulsi naturali che costantemente alimentano le cattive abitudini. Il risultato della pratica è un nuovo Sé con una nuova abilità multidimensionale regolata per ridurre distorsioni nella propria esperienza interna ed esterna e sostenere una mente sana». 

   Ecco pertanto ancora una prova che la meditazione nelle sue varie forme, e anche in questa nuova e semplice metodica, può essere davvero utile per la salute della mente e una migliore qualità della vita. 

giovedì 24 luglio 2014

Dagli Animal Spirits alla Neuroeconomia: Quando la Psicologia si Integra con l’Analisi Economica



di Filippo Poli


   John Maynard Keynes lo aveva intuito: le emozioni umane incidono sull’andamento dell’economia, basti pensare al modo in cui modellano la fiducia dei consumatori. 


 L’autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta ricorreva già nel 1936, anno di pubblicazione dell’opera, all’espressione animal spirits,  al fine di alludere proprio alla dimensione emozionale ed istintuale che orienta il comportamento umano. 
  Più recente è invece lo sviluppo di quel progetto di ricerca che risponde al nome di neuroeconomia. Essa è caratterizzata da un approccio multidisciplinare nel quale trovano spazio economia, neuropsicologia, neurofisiologia e neuroimmagine. L’obiettivo è quello di riconoscere le aree cerebrali e i correlati neuronali sottesi ai processi di decision-making che i soggetti decisori attivano. 
 I risultati ottenuti grazie all’impiego del paradigma di ricerca proprio della neuroeconomia hanno contribuito al superamento di quel concetto di razionalità piena che, basandosi su un approccio normativo, intendeva prescrivere il modo in cui le persone avrebbero dovuto scegliere. Per anni, economisti come von Neumann Morgenstern hanno supposto che gli individui fossero esseri puramente razionali, capaci dunque di soppesare correttamente i vantaggi di ciascuna alternativa di scelta. 
  Studi condotti col metodo della risonanza magnetica funzionale, che misura il flusso sanguigno richiamato dalle diverse aree cerebrali, hanno permesso alla neuroeconomia di scattare una sorta di istantanea delle zone del cervello che si attivano in corrispondenza di dati processi mentali. 
 Un esempio può essere utile per chiarire questa metodologia. Si pensi al cosiddetto ultimatum game: qui un soggetto proponente, impegnato nella suddivisione di una somma di denaro, avanza al proprio partner un’offerta di ripartizione monetaria iniqua; quest’ultimo può scegliere se accettare o meno tale proposta. Qualora non accetti, entrambi i giocatori non ottengono nulla. Ebbene, nonostante l’agire razionale suggerisca come anche un piccolo guadagno sia finanziariamente meglio di nulla, il partner rifiuta sistematicamente l’offerta giudicata non equa
   La neuroeconomia ha mostrato come nel gioco dell’ultimatum intervenga una parte del cervello nota come insula, coinvolta nell’elaborazione emotiva della situazione. Questa evidenza mostra quindi come la scelta di rifiutare l’offerta giudicata incongrua sia dovuta al prevalere di una reazione emozionale rispetto al mero calcolo monetario.
   Con tutta evidenza, i risultati della neuroeconomia hanno contribuito e potranno contribuire in futuro a fare luce sui meccanismi che stanno alla base dei processi decisionali. Ciò potrà poi consentire di mettere a punto strategie d’azione basate su modelli economici non più astrattamente concepiti, bensì supportati dalle conoscenze sul funzionamento delle aree cerebrali

mercoledì 23 luglio 2014

Perché Facebook è una miniera d’oro per la scienza



di Luciano Canova 
http://www.greenreport.it/news/scienze-e-ricerca/perche-facebook-miniera-doro-per-scienza/ 

Il social network è una manna per economisti e psicologi, che fanno bene a usare i nostri dati ai fini della ricerca 


   Così, per essere chiari, la questione è grossa come una balena.
   L’esperimento di Facebook sugli stati emotivi, che tanto ha fatto parlare in Italia e fuori a proposito di etica e violazione della privacy, ha dato il là in modo concreto a una questione che si farà centrale nelle scienze sociali, da qui a venire: informazioni come quelle raccolte da Facebook (o da Google) o da Twitter, o da chicchessia, possono NON essere utilizzate per finalità di ricerca?
   Lascerò perdere le giuste e rilevanti preoccupazioni concernenti la questione dell’uso di informazioni da parte di un privato: altre persone più titolate del sottoscritto se ne sono occupate.
   Qui la questione (e la domanda fondamentale) è un’altra: come è anche solo possibile pensare che informazioni di questo tipo e con tale granularità (leggi: profilazione di un utente al millisecondo) non vengano utilizzate per finalità scientifiche?
  La risposta a questa domanda, implicitamente, arriva già dall’Editorial Concern espresso da PNAS, la rivista che ha pubblicato lo studio: vengono eccepite, in esso, le ragioni dell’etica e della trasparenza. Ma lo studio viene comunque pubblicato (mica sono scemi).
   Stavo aspettando da mesi quella che promette di essere un’inevitabile e benvenuta rivoluzione: Facebook, piaccia o meno, rappresenta un laboratorio di psicologia ed economia sperimentale unico. Più di 1 miliardo di utenti in tutto il mondo con la possibilità di dividere il campione per classi d’età, genere, condizione lavorativa, area geografica, etc. etc. La manna del ricercatore, insomma.
   Guardo i numeri dell’esperimento pubblicato sul PNAS: 689003 utenti. In laboratorio gli scienziati sono contenti con qualche centinaio di osservazioni. E questa, signori miei, non è simulazione artificiale prodotta in laboratorio: è vita vera.
   Lo studio ha mostrato che le persone sono soggette, da un punto di vista di mood, all’onda emotiva del loro network di riferimento: sostanzialmente, attraverso la manipolazione dell’algoritmo con cui Facebook alimenta il nostro News Feed, alcune persone, per una settimana, sono state esposte a post dal contenuto emotivo prevalentemente positivo e altre a post dal contenuto negativo. Altre ancora, invece (il gruppo di controllo) sono state sottoposte a post random.
   Risultato: c’è un effetto contagio significativo ed evidente.
   La domanda di ricerca, cari lettori di Greenreport, non è diversa da quella che ha spinto AppyMeteo a nascere. Differenza: da due mesi noi ci arrabattiamo con un migliaio di utenti che si stancheranno presto dell’app. Facebook, invece, è vivo, vegeto, prospera e prospererà proprio grazie all’engagement tipico di questo social network. E ha una bocca di fuoco un milione di volte superiore.
   Ora, io mi domando e vi domando: la comunità scientifica ha di fronte a sé un campo in cui vengono coltivate pepite d’oro. Queste pepite crescono, si moltiplicano, sono di una luccicanza mai vista.
   Quanto è credibile pensare che questa miniera, che può davvero produrre un cambiamento epocale (e già lo sta producendo) nell’alveo delle scienze sociali, venga abbandonata senza sfruttare neppure un filone?
   Fermo restando l’assoluta necessità di affrontare, a livello politico, la questione dei dati ai tempi di Facebook e Google, per non finire nell’incubo di The Circle, non utilizzare questi dati per la ricerca scientifica non solo non sarebbe credibile. Sarebbe un abbaglio spaventoso.