venerdì 4 luglio 2014

Sociologia Clinica Italiana



di Francesco M. Battisti
   C.-G Selle diceva della clinica ch'essa non è altro che "l'esercizio stesso della medicina al capezzale del malato"e che, in questo senso, s'identificava con "la medicina pratica propriamente detta". Ben più che una ripresa del vecchio empirismo medico, la clinica è vita concreta, una delle applicazioni dell'Analisi. Così, pur sentendo la propria opposizione coi sistemi e colle teorie, essa riconosce la sua parentela immediata colla filosofia: "Perché separare la scienza dei medici da quella dei filosofi? Perché distinguere due studi che si confondono per origine e destinazione comuni?" La clinica apre un campo reso "visibile" dall'introduzione nel dominio patologico di strutture grammaticali e probabilistiche.


Michel Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino, 1998, nuova edizione, p. 117-118.


Cosa è la sociologia clinica?
(Una chiave di comprensione "olistica" - N.d.R.


   In linea teorica, la sociologia clinica, secondo una definizione data da Freedman nel 1982, è analisi sociale che è: (1) orientata all'intervento; (2) attenta allo studio dei casi; (3) interveniente su individui, gruppi, organizzazioni e comunità; (4) caratterizzata da scopi diagnostici; (5) diretta al cambiamento; (6) qualificata come una disciplina "umanistica" (nella sua tutela dell'essere umano). Inoltre, (7) cerca di comprendere i fattori sociali che limitano la libertà individuale; (8) supera la tematica circostanziata al cliente per considerare i fattori del funzionamento istituzionale e le tendenze sociali più generali; (9) usa la riflessione proveniente dalla tradizione sociologica e dall'"immaginazione sociologica"; (10) conduce la condotta individuale al cambiamento ed allo sviluppo; (11) assumerebbe una tendenza politica "liberale" e quindi diffidente delle impostazioni strettamente ideologiche. 

   Sebbene questi fattori, anche di natura militante, non abbiano una matrice esclusivamente sociologica, essi tenderebbero a produrre nella loro combinazione, secondo Freedman, un approccio "distintivamente" sociologico, cioè di sociologia clinica (1)

   Secondo D.P. Johnson, la teoria sociologica costituirebbe la base conoscitiva indispensabile per una pratica sociologica, capace di includere sia i sociologi applicati, sia i sociologi clinici. Il ruolo della teoria sociologica "è quello di provvedere modelli di comportamento sociale che facilitino il riconoscimento della struttura dei problemi individuali ed organizzativi e suggeriscano le fattibili strategie risolutive" (2).
   Se quindi la sociologia clinica nasce, nella originale accezione data da Louis Wirth, come "case method", come un insieme di "metodi e tecniche capaci di contribuire alla comprensione ed al trattamento di persone aventi problemi di comportamento e di personalità", essa non può essere più limitata a tale ambito pratico-individuale (3)

   Al metodo del caso continua ad essere molto collegata la scuola francese di sociologia clinica, che riunisce un ampio gruppo di psicologi clinici, capaci di interessarsi - secondo le scelte personali - ora di problemi strettamente collegati a circostanze individuali, ora di problemi sociali ed organizzativi.
   Se si vuole, oggi, affrontare, sia pure per grandi linee, una concettualizzazione più specifica di un siffatto ambito, una prima peculiarità che caratterizza la sociologia clinica si evince, nel nostro contesto, dal situare i suoi obiettivi, in termini prioritari anche se certamente non esclusivi, nel contesto socio-sanitario e nel ritagliare quindi uno spazio, culturale e territoriale, dell'intero tessuto sociale, entro cui non soltanto esaminare le problematiche e le discrasie emergenti ad una mirata indagine conoscitiva, ma consentire di definirne le modalità di intervento, sotto il profilo sia strutturale che organizzativo, che vadano, peraltro e di necessità, ad esprimersi in termini di complementarietà collaborativa nei confronti della specifica e di fatto più delimitata area medico-specialistica. 

   L'ipercomplessità strutturale e relazionale che caratterizza le attuali forme di società a sviluppo avanzato, si manifesta prevalentemente attraverso l'espressione di fenomeni di iperspecializzazione e frammentazione delle conoscenze e delle competenze che, allorché ci si voglia riferire in particolare al settore sanitario, denunciano l'estrema difficoltà ad una osservazione e considerazione del malato nella sua interezza-singolarità e la conseguente impossibilità a ricondurre la diagnosi specialistica ad una ri-considerazione e ri-comprensione della personalità integrale, necessaria invece a sostenere il paziente, fisicamente e/o psichicamente colpito in una sua parte e, quindi, temporaneamente parcellizzato

  Questa situazione medicalizzante determina anche nel malato una sorta di schizofrenica considerazione del sè, a causa di un'attenzione esclusivamente focalizzata sulla malattia, che, impedendogliene pertanto una percezione corretta e globalizzante, non gli consente il superamento di una tale dilaniante e distruttiva parcellizzazione e, ancor più, la volontà di un autonomo aiuto alla riacquisizione consapevole della totalità della persona, che favorisca lo sforzo terapeutico e faciliti la guarigione. 

   D'altronde proprio il sistema medico, in quanto tale, tende a caratterizzarsi come un sistema chiuso, fortemente autoreferenziale, in cui la rigidità culturale esprime un intrinseco rifiuto del sistema delle relazioni e comporta ritorni estremamente disfunzionali, giacché manca, in buona sostanza, una corretta interfaccia di comunicazione. Ne consegue un individuo-paziente che non ha più relazioni col mondo esterno; situazione psicopatologica, questa, che può portare perfino a ledere principi etici più generali e a distorcere taluni obblighi propri dello specialista, anziché tendere a regolare il sistema di relazioni tra malato e medico. 

   La questione è stata notata anche da H. Rebach e da J. Bruhn che, in un loro saggio introduttivo allo Handbook of Clinical Sociology hanno caratterizzato la sociologia clinica anche per le sue importanti qualità di mediazione tra le componenti umane ed istituzionali delle organizzazioni complesse. Ricordiamo le designazioni del sociologo clinico a questo ruolo come "counselor", "trainer", "broker", "advocate" e "group facilitator" (4)

   Per contro, nell'ottica di una più articolata attività interdisciplinare, quale la sociologia clinica si sforza di applicare, la malattia si va a situare all'interno di una globale e articolata dimensione sociale ed umana, anziché in un contesto riduttivamente terapeutico-specialistico: l'attenzione è rivolta al paziente, nell'interezza del suo vissuto individuale e sociale, di cui l'aspetto malattia costituisce un momento che non può e non deve essere sentito come isolato e totalizzante, se si voglia recuperare l'integrità psico-fisica e interazionale del soggetto.
   L'intervento sinergico di diversificati ruoli - in una siffatta attività interdisciplinare - consente pertanto di affrontare l'evento per sostenerne l'iter complesso e doloroso con una più ampia e policentrica visione dell'alterata situazione ed una organizzazione più idonea a favorire, fra gli altri, sostegni di livello psico-sociale, che rendano più equilibrati ed efficaci quelli specificamente medico-terapeutici. 

   Si tratta, in tale visione, di sostituire ad una ottimizzazione dei processi di tecnologia e lavorazione, una ben più articolata ottimizzazione delle risorse umane e tecniche, per offrire al paziente un sistema meno rigido, non destruente della sua integralità. 

   In base ad un più ampio e ambizioso obiettivo a lungo termine, un tale ambito della sociologia clinica intende collaborare a formare e sviluppare, sulla base di un centrale e comprensivo concetto di prevenzione, una cultura della salute, finalizzata al recupero di stili di vita che ne consentano una migliore qualità e non semplicemente e, forse, superficialmente una prolungata quantità del tempo cronologicamente assegnatoci. 

   Si dovrà elaborare pertanto una ristrutturazione sistemica di progettazione, diretta non solo alla prevenzione del fenomeno-malattia, ma soprattutto ad una consapevole conquista e diffusa concettualizzazione di una qualità di vita più sana; capace di ricostruire un habitat migliore, attraverso una equilibrata gestione delle risorse scientifiche e tecnologiche, opportunamente vincolate ad una loro diffusione selezionata e ad un uso normativamente corretto e razionalmente definito. 

   Si tratta di attuare una strategia di mediazione fra gli individui e il loro ambiente, che combini la scelta personale con la responsabilità sociale, al fine di creare una immagine di salute che si offra paradigmaticamente come patrimonio comune in contrapposizione alla crescente ostilità e potenziale invivibilità dell'ambiente. 

   Un tale programma di promozione della salute include una combinazione di attività educative, organizzative, ambientali finalizzate a sorreggere un comportamento favorevole alla salute all'interno di un setting di lavoro. Formulato, in linea teorica, come approccio alla comprensione dei comportamenti alla salute; metodologicamente, attraverso la conoscenza dei bisogni e i mezzi di valutazione, consente lo sviluppo di un programma specificamente strutturato ad affrontare le necessità dell'organizzazione. Infine, in base alla designazione di successivi interventi programmatici per la localizzazione del lavoro, permette la predisposizione di differenziate zone di campo, entro cui trovare alleanze di collaborazione ed integrazione di interesse collettivo vitale. 

   Un secondo carattere peculiare della sociologia clinica che ne qualifica la finalità degli interventi è senz'altro quello, cui già prima si è fatto cenno, di una organizzazione e strutturazione dei propri obiettivi operativi secondo un'ottica di interdisciplinarietà di counseling e di attività di campo, che riesca a superare il riduttivismo medicalizzante. La realizzazione di modelli cognitivi e di intervento operativo più articolati e flessibili può consentire un'equilibrata convergenza di forze di diversa natura e competenza, la cui validità finirebbe, di contro, per essere fortemente limitata, se non fosse sorretta dall'obiettivo unificante del recupero valoriale dell'intera personalità dell'individuo. 

   Bisogna riflettere dunque sulla necessità di sostituire alla specificità settoriale di una disciplina, che, nell'azione solitaria di una sempre più sofisticata specializzazione, sarebbe costretta a disattendere tutti gli altri bisogni individuali e sociali del paziente, un campo polivalente ma concordato di forze complementari di intervento, in cui i differenti ruoli degli attori che vi operano, consenta un ben più articolato e approfondito sostegno, attraverso una rete psicosociale capace di collaborare sia a livello terapeutico che relazionale e di ricreare quindi l'integrità individuale messa a così dura prova dall'evento della malattia. 

   D'altronde gli attuali sistemi societari così complessi non si possono governare attraverso specializzazioni settoriali, ma, al contrario, probabilmente solo con l'attivazione, all'interno dei diversi servizi, di sinergie realizzate con la collaborazione di più specialisti. 

   Una tale metodologia può e deve essere posta in essere anche negli altri settori di intervento pratico sul territorio nei quali la sociologia clinica è presente, in una più vasta accezione del termine.
   Per concludere, in questo settore di lavoro, un'enfasi particolare deve essere posta, in base alla confluenza e alla cumulazione selettiva dei risultati di ricerca, all'avviarsi di collegamenti e di analisi comparate delle esperienze e delle tipologie di intervento in ambito internazionale, di pressante interesse nell'attuale ottica europeistica. 

   Da tempo il generalizzato scambio conoscitivo dei risultati e delle conseguenti possibilità applicative delle singole ricerche è un dato soddisfacentemente acquisito in tutti i Paesi, dove lo studio delle specifiche discipline è scientificamente attento e continuamente comparato, così da permettere il raggiungimento di esiti positivi anche in casi, una volta di difficile se non addirittura di impossibile soluzione. 

Note



(1) J.A. Freedman, "Clinical sociology: What it is and what it isn't -- A perspective", in Clinical Sociology Review, 1,1982, pp.34-49.
(2) D.P. Johnson, "Using sociology to analyze human and organizational problems. A humanistic perspective to link theory and practice", Clinical Sociology Review, 4, 1986,pp. 57-70.
(3) L. Wirth, "Sociology and clinical procedure" in American Journal of Sociology, n. 37; ristampato in Clinical Sociology Review, 1,1982, pp.7-22.
(4) H. Rebach, J. Bruhn, Clinical sociology - Defining the field, in Handbook of clinical sociology, a cura degli stessi, Plenum, New York, 1991, pp.10-15.

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