di Francesco M. Battisti
C.-G Selle diceva della clinica ch'essa non è altro che "l'esercizio stesso
della medicina al capezzale del malato"e che, in questo senso,
s'identificava con "la medicina pratica propriamente detta". Ben più che una
ripresa del vecchio empirismo medico, la clinica è vita concreta, una delle
applicazioni dell'Analisi. Così, pur sentendo la propria opposizione coi
sistemi e colle teorie, essa riconosce la sua parentela immediata colla
filosofia: "Perché separare la scienza dei medici da quella dei
filosofi? Perché distinguere due studi che si confondono per origine e
destinazione comuni?" La clinica apre un campo reso "visibile"
dall'introduzione nel dominio patologico di strutture grammaticali e
probabilistiche.
Michel Foucault, Nascita della
clinica, Einaudi, Torino, 1998, nuova edizione, p.
117-118.
Cosa è la sociologia clinica?
(Una chiave di comprensione "olistica" - N.d.R.)
In linea teorica, la sociologia clinica, secondo una definizione data da
Freedman nel 1982, è analisi sociale che è: (1) orientata all'intervento; (2)
attenta allo studio dei casi; (3) interveniente su individui, gruppi,
organizzazioni e comunità; (4) caratterizzata da scopi diagnostici; (5) diretta
al cambiamento; (6) qualificata come una disciplina "umanistica" (nella sua
tutela dell'essere umano). Inoltre, (7) cerca di comprendere i fattori sociali
che limitano la libertà individuale; (8) supera la tematica circostanziata al
cliente per considerare i fattori del funzionamento istituzionale e le tendenze
sociali più generali; (9) usa la riflessione proveniente dalla tradizione
sociologica e dall'"immaginazione sociologica"; (10) conduce la condotta
individuale al cambiamento ed allo sviluppo; (11) assumerebbe una tendenza
politica "liberale" e quindi diffidente delle impostazioni strettamente
ideologiche.
Sebbene questi fattori, anche di natura militante, non abbiano una matrice
esclusivamente sociologica, essi tenderebbero a produrre nella loro
combinazione, secondo Freedman, un approccio "distintivamente" sociologico, cioè
di sociologia clinica (1).
Secondo D.P. Johnson, la teoria sociologica costituirebbe la base conoscitiva
indispensabile per una pratica sociologica, capace di includere sia i sociologi
applicati, sia i sociologi clinici. Il ruolo della teoria sociologica "è quello
di provvedere modelli di comportamento sociale che facilitino il riconoscimento
della struttura dei problemi individuali ed organizzativi e suggeriscano le
fattibili strategie risolutive" (2).
Se quindi la sociologia clinica nasce, nella originale accezione data da
Louis Wirth, come "case method", come un insieme di "metodi e tecniche capaci di
contribuire alla comprensione ed al trattamento di persone aventi problemi di
comportamento e di personalità", essa non può essere più limitata a tale ambito
pratico-individuale (3).
Al metodo del caso continua ad essere molto collegata la scuola francese di
sociologia clinica, che riunisce un ampio gruppo di psicologi clinici, capaci di
interessarsi - secondo le scelte personali - ora di problemi strettamente
collegati a circostanze individuali, ora di problemi sociali ed
organizzativi.
Se si vuole, oggi, affrontare, sia pure per grandi linee, una
concettualizzazione più specifica di un siffatto ambito, una prima peculiarità
che caratterizza la sociologia clinica si evince, nel nostro contesto, dal
situare i suoi obiettivi, in termini prioritari anche se certamente non
esclusivi, nel contesto socio-sanitario e nel ritagliare quindi uno
spazio, culturale e territoriale, dell'intero tessuto sociale, entro cui non
soltanto esaminare le problematiche e le discrasie emergenti ad una mirata
indagine conoscitiva, ma consentire di definirne le modalità di intervento,
sotto il profilo sia strutturale che organizzativo, che vadano, peraltro e di
necessità, ad esprimersi in termini di complementarietà collaborativa nei
confronti della specifica e di fatto più delimitata area medico-specialistica.
L'ipercomplessità strutturale e relazionale che caratterizza le attuali forme
di società a sviluppo avanzato, si manifesta prevalentemente attraverso
l'espressione di fenomeni di iperspecializzazione e frammentazione delle
conoscenze e delle competenze che, allorché ci si voglia riferire in particolare
al settore sanitario, denunciano l'estrema difficoltà ad una osservazione e
considerazione del malato nella sua interezza-singolarità e la conseguente
impossibilità a ricondurre la diagnosi specialistica ad una ri-considerazione e
ri-comprensione della personalità integrale, necessaria invece a
sostenere il paziente, fisicamente e/o psichicamente colpito in una sua
parte e, quindi, temporaneamente parcellizzato.
Questa situazione medicalizzante determina anche nel malato una sorta di
schizofrenica considerazione del sè, a causa di un'attenzione
esclusivamente focalizzata sulla malattia, che, impedendogliene pertanto una
percezione corretta e globalizzante, non gli consente il superamento di
una tale dilaniante e distruttiva parcellizzazione e, ancor più, la volontà di
un autonomo aiuto alla riacquisizione consapevole della totalità della persona,
che favorisca lo sforzo terapeutico e faciliti la guarigione.
D'altronde proprio il sistema medico, in quanto tale, tende a caratterizzarsi
come un sistema chiuso, fortemente autoreferenziale, in cui la rigidità
culturale esprime un intrinseco rifiuto del sistema delle relazioni e comporta
ritorni estremamente disfunzionali, giacché manca, in buona sostanza, una
corretta interfaccia di comunicazione. Ne consegue un individuo-paziente che non
ha più relazioni col mondo esterno; situazione psicopatologica, questa, che può
portare perfino a ledere principi etici più generali e a distorcere taluni
obblighi propri dello specialista, anziché tendere a regolare il sistema di
relazioni tra malato e medico.
La questione è stata notata anche da H. Rebach e da J. Bruhn che, in un loro
saggio introduttivo allo Handbook of Clinical Sociology hanno
caratterizzato la sociologia clinica anche per le sue importanti qualità di
mediazione tra le componenti umane ed istituzionali delle organizzazioni
complesse. Ricordiamo le designazioni del sociologo clinico a questo ruolo come
"counselor", "trainer", "broker", "advocate" e "group facilitator" (4).
Per contro, nell'ottica di una più articolata attività interdisciplinare,
quale la sociologia clinica si sforza di applicare, la malattia si va a situare
all'interno di una globale e articolata dimensione sociale ed umana, anziché in
un contesto riduttivamente terapeutico-specialistico: l'attenzione è rivolta al
paziente, nell'interezza del suo vissuto individuale e sociale, di cui
l'aspetto malattia costituisce un momento che non può e non deve essere
sentito come isolato e totalizzante, se si voglia recuperare l'integrità
psico-fisica e interazionale del soggetto.
L'intervento sinergico di diversificati ruoli - in una siffatta attività
interdisciplinare - consente pertanto di affrontare l'evento per sostenerne
l'iter complesso e doloroso con una più ampia e policentrica visione
dell'alterata situazione ed una organizzazione più idonea a favorire, fra gli
altri, sostegni di livello psico-sociale, che rendano più equilibrati ed
efficaci quelli specificamente medico-terapeutici.
Si tratta, in tale visione, di sostituire ad una ottimizzazione dei
processi di tecnologia e lavorazione, una ben più articolata
ottimizzazione delle risorse umane e tecniche, per offrire al paziente un
sistema meno rigido, non destruente della sua integralità.
In base ad un più ampio e ambizioso obiettivo a lungo termine, un tale ambito
della sociologia clinica intende collaborare a formare e sviluppare, sulla base
di un centrale e comprensivo concetto di prevenzione, una cultura
della salute, finalizzata al recupero di stili di vita che ne consentano una
migliore qualità e non semplicemente e, forse, superficialmente una prolungata
quantità del tempo cronologicamente assegnatoci.
Si dovrà elaborare pertanto una ristrutturazione sistemica di progettazione,
diretta non solo alla prevenzione del fenomeno-malattia, ma soprattutto ad una
consapevole conquista e diffusa concettualizzazione di una qualità di vita più
sana; capace di ricostruire un habitat migliore, attraverso una equilibrata
gestione delle risorse scientifiche e tecnologiche, opportunamente vincolate ad
una loro diffusione selezionata e ad un uso normativamente corretto e
razionalmente definito.
Si tratta di attuare una strategia di mediazione fra gli individui e il loro
ambiente, che combini la scelta personale con la responsabilità sociale, al fine
di creare una immagine di salute che si offra paradigmaticamente come
patrimonio comune in contrapposizione alla crescente ostilità e potenziale
invivibilità dell'ambiente.
Un tale programma di promozione della salute include una combinazione di
attività educative, organizzative, ambientali finalizzate a sorreggere un
comportamento favorevole alla salute all'interno di un setting di lavoro.
Formulato, in linea teorica, come approccio alla comprensione dei comportamenti
alla salute; metodologicamente, attraverso la conoscenza dei bisogni e i mezzi
di valutazione, consente lo sviluppo di un programma specificamente strutturato
ad affrontare le necessità dell'organizzazione. Infine, in base alla
designazione di successivi interventi programmatici per la localizzazione del
lavoro, permette la predisposizione di differenziate zone di campo, entro cui
trovare alleanze di collaborazione ed integrazione di interesse collettivo
vitale.
Un secondo carattere peculiare della sociologia clinica che ne qualifica la
finalità degli interventi è senz'altro quello, cui già prima si è fatto cenno,
di una organizzazione e strutturazione dei propri obiettivi operativi secondo
un'ottica di interdisciplinarietà di counseling e di attività di campo,
che riesca a superare il riduttivismo medicalizzante. La realizzazione di
modelli cognitivi e di intervento operativo più articolati e flessibili può
consentire un'equilibrata convergenza di forze di diversa natura e competenza,
la cui validità finirebbe, di contro, per essere fortemente limitata, se non
fosse sorretta dall'obiettivo unificante del recupero valoriale dell'intera
personalità dell'individuo.
Bisogna riflettere dunque sulla necessità di sostituire alla specificità
settoriale di una disciplina, che, nell'azione solitaria di una sempre più
sofisticata specializzazione, sarebbe costretta a disattendere tutti gli altri
bisogni individuali e sociali del paziente, un campo polivalente ma concordato
di forze complementari di intervento, in cui i differenti ruoli degli attori che
vi operano, consenta un ben più articolato e approfondito sostegno, attraverso
una rete psicosociale capace di collaborare sia a livello terapeutico che
relazionale e di ricreare quindi l'integrità individuale messa a così dura prova
dall'evento della malattia.
D'altronde gli attuali sistemi societari così complessi non si possono
governare attraverso specializzazioni settoriali, ma, al contrario,
probabilmente solo con l'attivazione, all'interno dei diversi servizi, di
sinergie realizzate con la collaborazione di più specialisti.
Una tale metodologia può e deve essere posta in essere anche negli altri
settori di intervento pratico sul territorio nei quali la sociologia
clinica è presente, in una più vasta accezione del termine.
Per concludere, in questo settore di lavoro, un'enfasi particolare deve
essere posta, in base alla confluenza e alla cumulazione selettiva dei risultati
di ricerca, all'avviarsi di collegamenti e di analisi comparate delle
esperienze e delle tipologie di intervento in ambito internazionale, di
pressante interesse nell'attuale ottica europeistica.
Da tempo il generalizzato scambio conoscitivo dei risultati e delle
conseguenti possibilità applicative delle singole ricerche è un dato
soddisfacentemente acquisito in tutti i Paesi, dove lo studio delle specifiche
discipline è scientificamente attento e continuamente comparato, così da
permettere il raggiungimento di esiti positivi anche in casi, una volta di
difficile se non addirittura di impossibile soluzione.
Note
(1) J.A. Freedman, "Clinical sociology: What it is and what it isn't -- A
perspective", in Clinical Sociology Review, 1,1982, pp.34-49.
(2) D.P. Johnson, "Using sociology to analyze human and organizational
problems. A humanistic perspective to link theory and practice", Clinical
Sociology Review, 4, 1986,pp. 57-70.
(3) L. Wirth, "Sociology and clinical procedure" in American Journal of
Sociology, n. 37; ristampato in Clinical Sociology Review, 1,1982,
pp.7-22.
(4) H. Rebach, J. Bruhn, Clinical sociology - Defining the field, in
Handbook of clinical sociology, a cura degli stessi, Plenum, New York,
1991, pp.10-15.
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