Cervello e neurofisiologia della spiritualità/BM&L


BM&L-ITALIA, FIRENZE 2008 
La Ricerca dello Spirito nel Cervello 
Monica Lanfredini, Nicole Cardon e Giuseppe Perrella


1. Introduzione. 

La ricerca delle basi cerebrali della spiritualità, delle esperienze mistiche e del sentimento religioso ha ormai una lunga tradizione, ma solo negli ultimi anni sono stati compiuti reali progressi nella definizione di correlati neurofunzionali degli stati mentali studiati. Il recente sviluppo di questo campo di indagine ha assunto proporzioni e caratteristiche tali da indurre alcuni ricercatori a chiedere di riconoscerlo come disciplina indipendente, per la quale sono stati proposti due possibili nomi, ciascuno dei quali ha già sollevato obiezioni e critiche: Neuroteologia (Neurotheology) e Neuroscienza dello Spirito (Spiritual Neuroscience). 

Fra i ricercatori sembra abbastanza diffusa l’idea che questi studi possano essere indirizzati ad un fine terapeutico: l’individuazione dei processi che generano benessere nell’esperienza religiosa, dovrebbe essere seguita dall’elaborazione di metodi e tecniche per indurli indipendentemente da questa[1]

Lo studio dell’argomento, che abbiamo avviato con altri soci di “Brain, Mind & Life”, ci porta a dubitare dell’utilità di delimitare entro rigidi confini questo ambito sperimentale, soprattutto in una fase di così rapida evoluzione delle conoscenze neuroscientifiche come quella che stiamo vivendo, e ci induce a nutrire qualche riserva circa la possibilità di conservare gli effetti di benessere in una evocazione avulsa da una più generale esperienza mistica o religiosa. Ma speriamo che i lettori, soprattutto sulla base dei risultati sperimentali qui riassunti e più estesamente e dettagliatamente esposti nei lavori originali, possano formarsi una personale opinione al riguardo. 

Come per ogni altro oggetto dell’indagine neuroscientifica, la cultura dell’ambito in cui sono state condotte le ricerche ha influito in maniera determinante sulla costituzione dei modelli per le tesi, le ipotesi e le interpretazioni dei risultati; ma una revisione attenta delle pubblicazioni scientifiche delle tre ultime decadi, ci ha consentito di rilevare che in questo caso le convinzioni personali degli autori degli studi hanno spesso influito sulle loro conclusioni più di quanto sia accaduto nello stesso periodo per altri argomenti. 

Alcuni ricercatori agnostici ritengono che i processi neurobiologici responsabili dello stato affettivo-emotivo che caratterizza le esperienze mistiche siano all’origine delle religioni. In altre parole, per costoro tutta la cultura religiosa non sarebbe altro che letteratura, filosofia ed arte sviluppate quale conseguenza di esperienze insolite o francamente patologiche che hanno riguardato lontani progenitori e che ancora oggi interessano il cervello di molte persone. Si comprende che per tali studiosi la definizione del profilo neurofunzionale di un’esperienza mistica equivale a decifrare l’origine biologica del sacro e del divino nei termini di uno stereotipo funzionale minoritario o patologico, perciò non sorprende che possano essere tentati di trascurare le differenze individuali e l’attività cerebrale “neutra”, enfatizzando il dato che si avvicina ai reperti patologici. 

All’opposto, si può notare che fra i credenti, soprattutto cristiani di confessione cattolica, c’è il rischio di una sottovalutazione del ruolo dell’esperienza mistica e dunque dei processi cerebrali a questa connessi, perché secondo il magistero della Chiesa tali vissuti non sono di per sé garanzia di una condizione spirituale di vicinanza col divino, se non a certe precise condizioni, e al più si possono considerare parte di una costellazione di eventi fisiologici alla base dei molteplici aspetti psichici di una fede. 

Fra i ricercatori dichiaratamente atei, poi, vi sono coloro che, come vedremo più avanti, con l’intento malcelato di dimostrare che ogni istanza soprannaturale possa essere ricondotta all’attività di un gruppo di neuroni, cercano un ipotetico “God Spot”, ossia un’area in cui sia localizzata una funzione corrispondente al divino nel cervello umano[2]

Per queste ragioni abbiamo ritenuto utile fornire qualche indicazione sulle ipotesi sottoposte a verifica sperimentale e sull’orientamento di alcuni ricercatori, anziché limitarci a riportare la sintesi di esperimenti e risultati, come in genere si fa nelle rassegne scientifiche divulgative. 

2. L’ipotesi del Lobo Temporale. 

Senza avventurarci in un tentativo di ricostruzione storica delle origini di questi studi, proponiamo un breve cenno alle condizioni culturali in cui appare per la prima volta un legame scientificamente fondato fra funzioni cerebrali ed esperienze ricondotte all’ambito religioso: l’epilessia del lobo temporale. 

Il positivismo ottocentesco, dominante nelle scienze mediche, bandiva il soprannaturale dagli oggetti del proprio interesse e tendeva a ricondurre al patologico le esperienze di rapporto col divino. Una tale visione non si limitava alle applicazioni cliniche relative a casi di disturbi mentali, ma costituiva un atteggiamento culturale esteso all’interpretazione dei fatti della storia. Così, le voci di Giovanna d’Arco erano allucinazioni uditive, le apparizioni della Madonna, allucinazioni visive, e le estasi mistiche, null’altro che fenomeni para-ipnotici auto- od etero-indotti. Nel 1892, l’associazione fra religiosità emotiva (religious emotionalism) ed epilessia è inclusa nei trattati di malattie nervose e mentali[3]

Nel 1975 Norman Geschwind, il celebre neurologo e studioso di neuroanatomia funzionale del Boston Veterans Administration Hospital, per primo descrisse una forma clinica di crisi epilettiche originate da alterazioni elettriche del lobo temporale, in cui i pazienti riferivano intense esperienze spirituali. Geschwind ed altri, fra cui David Bear della Vanderbilt University, ipotizzarono che scariche elettriche sincrone di gruppi neuronici della corteccia temporale potessero essere all’origine di pensieri ed ossessioni dai contenuti religiosi o attinenti a questioni morali. 

Questa ipotesi è stata esaminata, venti anni dopo, da Vilayanur S. Ramachandran dell’Università della California a San Diego, un ricercatore che ha a lungo studiato i rapporti fra percezione e coscienza, indagando le basi neurali di fenomeni come la sinestesia[4]

Ramachandran ha supposto che la chiave del fenomeno sia da ricercare nelle funzioni del sistema limbico, in stretta associazione morfo-funzionale con le formazioni del lobo temporale. Sulla base di tale traccia, con i suoi collaboratori, ha allestito degli esperimenti volti a valutare, nei pazienti affetti da epilessia temporale, il rapporto fra contenuti psichici e risposte mediate da strutture limbiche. 

E’ noto che il contenuto emozionale di uno stato mentale, grazie alla mediazione limbico-ipotalamica, è trasmesso dal sistema nervoso vegetativo alla cute, nella quale determina una variazione della resistenza elettrica o risposta galvanica, proporzionale all’intensità dell’emozione. Il gruppo di Ramachandran ha sfruttato questo fenomeno secondo un collaudato modello sperimentale, facendo ascoltare a pazienti affetti da epilessia temporale una serie di parole dal significato sessuale, religioso o neutro, e poi rilevandone la risposta cutanea. E’ risultato che parole come “Dio”, producevano una reazione insolitamente intensa, che non aveva riscontro nelle persone non affette. 

I ricercatori di San Diego hanno ritenuto gli esiti di questa sperimentazione una conferma della maggiore propensione alla manifestazione di sentimenti religiosi in questi pazienti. Secondo Ramachandran, l’attività elettrica patologica ha rafforzato le connessioni fra le aree corticali temporali e le formazioni del sistema limbico, producendo questo effetto[5]

Si può osservare che una tale interpretazione non è una spiegazione neurofisiologica del fenomeno perché, se è accettabile che l’epilessia determini una maggiore influenza delle strutture limbiche su quelle temporali, non si comprende perché questo debba aumentare la propensione al sacro o al divino. Infatti, una maggiore attivazione dell’amigdala, complesso nucleare sito nella profondità dorso-mediale del lobo temporale e principale componente limbica nella mediazione delle emozioni, può aumentare, ad esempio, l’intensità di risposta negli stati di paura, rabbia, innamoramento o eccitazione sessuale e, dunque, in questo caso avrebbe potuto tutt’al più produrre maggiori effetti sulla cute per parole offensive o erotiche. 

Perché la tesi di Ramachandran possa ritenersi una spiegazione, è necessario accettare l’ipotesi che i sentimenti legati al sacro e al divino siano generati da una particolare forma di emotività con una base limbica non ancora definita. D’altra parte, da una sperimentazione che desume attività cerebrali da variazioni della resistenza elettrica della pelle, non si poteva pretendere di più. 

3. Persinger e il “God Helmet”. 

L’ipotesi dell’importanza del lobo temporale, la cui lunga tradizione è stata tenuta viva dalla scuola di Geschwind, è stata messa alla prova, in esperimenti ben più articolati, da Michael Persinger della Laurentian University in Ontario (Canada). 

Persinger e il suo gruppo hanno realizzato un apposito strumento in grado di generare campi elettromagnetici deboli e focalizzarli in aree circoscritte della superficie corticale. Simile ad un casco da motociclista, di un vistoso colore giallo, il copricapo in grado di stimolare parti discrete del lobo temporale, ha ricevuto il suggestivo nome di “God helmet”. 

E’ difficile sintetizzare in poche righe il lavoro di Persinger e dei suoi collaboratori, perché i loro esperimenti sono stati condotti per anni su centinaia di volontari e con diversi paradigmi sperimentali; per questo ci limiteremo a considerare solo il risultato più rilevante ottenuto dal team canadese: il “casco divino” è in grado di indurre la sensazione di una presenza spirituale e materiale al contempo, in assenza di altre persone nella stanza in cui avviene l’esperimento. 

Durante i tre minuti di stimolazione temporale mirata, le persone sottoposte all’esperimento riferiscono ciò che provano traducendolo nel linguaggio della propria religione e della propria cultura. Alcuni dicono di sentire la presenza di Dio, altri di Budda, altri ancora parlano di una presenza benevolente o del miracolo dell’universo. In questo stato mentale, qualcuno riferisce di sentire come una beatitudine cosmica che rivela una verità universale. 

Persinger conclude che l’esperienza religiosa e la fede in Dio, non sono altro che la conseguenza di anomalie elettriche cerebrali, e la vocazione, anche delle figure più carismatiche delle grandi religioni, quali Mosè, San Paolo, Maometto e Budda, sia originata da tali disturbi neurologici. 

Studiando attentamente i resoconti delle prove sperimentali condotte con il “God helmet”, non si può aggiungere molto, in chiave concettuale, alla sintesi appena riferita e, dunque, sulla base di quanto appena esposto, si può affermare che le conclusioni di Michael Persinger non sono desumibili dal risultato degli esperimenti; in altre parole, non sono la conseguenza logica ed obbligata della lettura degli esiti della sperimentazione. 

Infatti, che una sensazione sia prodotta da condizioni patologiche o artificiali, non vuol dire che solo queste la possano produrre, ma solo che il cervello è predisposto a generarla. Lesioni ipotalamiche possono causare fame intensa, e lesioni dell’amigdala causano desiderio sessuale, ma non per questo diciamo che l’appetito per i cibi e il desiderio di accoppiarsi non siano altro che il prodotto di danni cerebrali. Si può dunque supporre che, come per le pulsioni alimentari ed erotiche esiste una fisiologia, esista una condizione fisiologica degli stati mistici e spirituali, che non ha bisogno dell’epilessia o del “God helmet” per manifestarsi, e della quale si sa ancora poco in termini biologici[6]

La tesi di Persinger, che ricalca ed amplia quella di Norman Geschwind, era già bene espressa venti anni or sono, quando lo studioso dell’Ontario spiegava che la base neuropatologica delle esperienze mistiche di alcuni, aveva creato un pensiero che, formalizzato e custodito nelle religioni, si era sviluppato e consolidato attraverso una serie di condizionamenti psicologici ad associare il positivo ed il piacevole con il sacro[7]

In tal modo, nelle società pervase dalla cultura religiosa, ogni vissuto paragonabile a quelli ottenuti con il casco erogatore di campi magnetici, sarebbe stato ricondotto ad una interpretazione obbligata secondo principi, dogmi e tematiche della religione professata in quella comunità. Come esempio delle associazioni del piacere al soprannaturale, lo studioso della Laurentian University, cita l’uso ebraico e cristiano di recitare una preghiera prima dei pasti, ed afferma che Dio non è nulla di più mistico di ciò. 

Nonostante numerose critiche, la tesi e le interpretazioni di Persinger hanno goduto di un notevole credito fino al 2005, quando un gruppo di ricercatori svedesi ha condotto uno studio di verifica provando a ripetere i risultati ottenuti con il “God helmet”. Il rigore e l’impegno del team scandinavo ha consentito l’allestimento di procedure ottimali, ma gli esperimenti non hanno riprodotto i risultati canadesi[8], che pertanto non sono stati confermati. 

Una critica più generale, che è stata mossa alle ricerche basate sull’ipotesi del lobo temporale, consiste nel rilevare che l’esperienza spirituale include elementi vari e di diversa natura, e nella vita di molti può essere del tutto priva di stati mentali collegati alla dimensione mistica e, perciò, rimane lontana dalle suggestioni prodotte dal disturbo epilettico o dalla stimolazione con campi magnetici deboli. 

Hanno accolto questa critica i gruppi di ricerca che indagano, nel corso di esperienze dello spirito e di pratiche religiose, i correlati neurofunzionali degli stati mentali, considerando la possibilità che a condizioni, pratiche ed esperienze differenti, possano corrispondere quadri di attività diversi, potenzialmente localizzati in qualsiasi lobo del cervello o area dell’encefalo. 

In questo tipo di studi, i ricercatori hanno spesso confrontato i rilievi ottenuti studiando stati mentali accostabili in termini di apparenza funzionale, anche se generati in realtà culturali diverse. Ad esempio, la calma indotta dalla recita del rosario nei cattolici, è stata paragonata all’effetto prodotto nei seguaci di altre religioni da pratiche caratterizzate dalla ripetizione di specifiche formule. Naturalmente, l’accostamento può difficilmente essere accettato dai praticanti, ma l’intento è quello di definire e mettere alla prova un’ipotesi di lavoro un po’ più generale, circa i processi che operano quando si è assorti e concentrati in preghiera, magari verificando se le caratteristiche o i contenuti di pratiche buddiste, cattoliche, indù o islamiche, inducono differenti schemi di attività cerebrale. 

4. Il cervello nella meditazione buddista. 

Andrew Newberg della University of Pennsylvania e il suo compianto collega Eugene d’Aquili, hanno studiato il cervello di buddisti praticanti, mediante tomografia ad emissione di singolo fotone (single photon emission computed tomography o SPECT). 

Questa metodica di neuroimaging, impiegando radionuclidi gamma-emittenti convenzionali, fornisce quadri funzionali del cervello con un grado di sensibilità abbastanza alto, e presenta anche il vantaggio di consentire il rilievo delle immagini con una gamma-camera simile a quella che si impiega per le comuni scintigrafie. Lo svantaggio di questa metodica è dato da una bassa risoluzione spaziale; in altre parole con la SPECT la delimitazione anatomica delle aree attive rispetto a quelle silenti, risulta imprecisa. 

Newberg e d’Aquili hanno iniettato il radionuclide nel sangue dei volontari durante la meditazione buddista, una pratica costituita da un insieme di rituali formalizzati, volti al fine di ottenere definiti stati spirituali, come la sensazione di fusione con l’universo. La formazione delle immagini, che deriva dall’assunzione del radionuclide da parte dei neuroni in proporzione diretta al loro grado di attività, presentava un quadro caratteristico nella fase corrispondente al picco della trance meditativa. 

Infatti, quando ciascuno degli otto buddisti tibetani partecipanti all’esperimento comunicava di aver raggiunto tale stato, la distribuzione del radionuclide nel cervello assumeva una configurazione del tutto peculiare, caratterizzata da una brusca caduta di attività in una estesa area del lobo parietale, associata ad un incremento funzionale nella corteccia prefrontale dorsolaterale, frontale inferiore ed orbitaria, oltre che nel talamo e nel giro del cingolo. 

Newberg, d’Aquili e i loro colleghi, hanno fornito un’interpretazione di tale quadro sulla base di nozioni classiche di neuroanatomia funzionale (Newberg et al., 2001). Infatti, poiché la parte in questione del lobo parietale interviene nella perlustrazione, nella ricerca della direzione da seguire per raggiungere una meta, nell’esplorazione di ambienti nuovi e nell’orientamento spaziale, hanno ipotizzato che il suo silenzio riflettesse la cessazione di processi che collegano il soggetto con l’ambiente circostante, facilitando la sensazione di dissoluzione dei confini fisici e lo sviluppo del sentimento di fusione con l’universo. 

Allo stesso modo, l’iperattività della corteccia prefrontale è stata interpretata facendo ricorso alla sua ben nota importanza nell’attenzione, nella pianificazione e in compiti cognitivi che richiedono concentrazione: il suo reclutamento al picco dello stato meditativo rifletterebbe il fatto che il raggiungimento di tale condizione si ottiene spesso concentrandosi su un pensiero o su un oggetto (Newberg et al., 2001; David Biello, 2007). 

Richard J. Davidson, con i suoi collaboratori della Wisconsin-Madison University, ha studiato centinaia di buddisti provenienti da ogni parte del mondo, impiegando la risonanza magnetica funzionale (fMRI). 

La risonanza magnetica nucleare (MRI) consente di ottenere le immagini del cervello con il più alto grado di risoluzione spaziale e tonale e, dunque, con la massima fedeltà anatomica; perciò, fin dalla sua introduzione, è stata considerata la metodica elettiva per lo studio morfologico del sistema nervoso centrale. Come è noto, si basa sulla possibilità che hanno alcuni nuclei atomici di “risuonare”, ossia di assorbire e cedere energia nella forma di un segnale contenente informazioni sulla densità e sulle caratteristiche chimiche del tessuto; l’opportuna elaborazione di questo segnale si traduce in immagini. 

Il limite principale di questa metodica consiste nel non fornire dati sulla fisiologia dell’organo esaminato. Per avere immagini della funzione cerebrale si è fatto ricorso, a lungo, alla tomografia ad emissione di positroni (PET) con Fluoro-18-desossiglucosio che, pur presentando numerosi vantaggi rispetto alla SPECT (o SPET), rimane molto lontana dalla fedeltà anatomica che si ottiene mediante la IR (Inversion-Recovery) nella risonanza magnetica. 

La messa a punto di tecniche che hanno consentito alla MRI di associare alla precisione anatomica lo studio dell’attività dei neuroni, realizzando una nuova procedura detta appunto risonanza magnetica funzionale (fMRI), ha fornito alla ricerca uno strumento prezioso per valutare quali siano le aree attive durante un processo psichico o uno stato mentale. 

La fMRI è in grado di tracciare il flusso del sangue ossigenato, in virtù delle sue proprietà magnetiche che lo rendono diverso dal sangue povero di O2. Poiché questo flusso è diretto dalle richieste dei neuroni che sono attivi in quel momento, la fMRI è in grado di riportare fedelmente la distribuzione delle aree con le cellule nervose maggiormente impegnate in attività metaboliche al servizio della neurotrasmissione. Si presume che i gruppi neuronici più attivi durante un compito o nel provare un’emozione, siano quelli responsabili di tali funzioni, e l’interpretazione delle immagini prevede la taratura del giudizio sulla base di repertori standard di quadri cerebrali ottenuti da volontari in condizioni basali, o correlati a vari stati fisiologici e patologici. 

Le osservazioni di Davidson, sulle prime, appaiono molto simili a quelle di Newberg e d’Aquili, ma ad uno studio più approfondito emergono interessanti differenze (Davidson et al., 2002). 

Una prima differenza è data dalla maggiore precisione nella definizione delle aree, sebbene l’attivazione della corteccia prefrontale risulti confermata. Gli autori interpretano il dato come l’espressione della capacità dei praticanti esperti di concentrarsi a dispetto delle distrazioni dovute alla condizione sperimentale. Considerato l’alto numero dei partecipanti, la sensibilità e la fedeltà maggiore della fMRI rispetto alla SPECT, il risultato è stato accettato come definitivo. 

Un altro dato emergente da questi studi è il riscontro, durante la meditazione, di una bassa attivazione cerebrale nei buddisti di lungo corso, rispetto ai praticanti meno esperti. L’interpretazione fornita dai ricercatori della Wisconsin-Madison University si basa su un principio di fisiologia cerebrale: un apprendimento consolidato da migliaia di ripetizioni migliora molto l’efficienza della prestazione, riducendo lo sforzo funzionale richiesto per l’esecuzione. Un’interpretazione alternativa potrebbe essere che l’obiettivo di un profondo stato meditativo corrisponde ad una bassa funzione psichica attuale, meglio ottenuta dai praticanti esperti. 

Lo stesso Davidson ha recentemente proposto un commento che ci sembra maggiormente in linea con la nostra interpretazione alternativa: i veterani della pratica buddista dichiarano di aver raggiunto uno stato di “concentrazione senza sforzo” (David Biello, 2007)[9]

Vogliamo, a questo punto, richiamare l’attenzione su una conseguenza derivante dall’accettazione della spiegazione lineare, ed apparentemente quasi banale, data dal gruppo di Davidson alla minore attivazione nei praticanti esperti: se il quadro registrato con la fMRI nei meno esperti esprime uno sforzo funzionale, allora riflette in parte un’attività aspecifica e non strettamente correlata con i processi necessari alla meditazione. 

Non si tratta di un’osservazione di poco conto, visto che gli studi condotti con metodiche di neuroimaging basano la loro validità su un’equazione fra immagine e funzione psichica studiata. 

E’ interessante notare che in questo tipo di ricerche, se da un canto le funzioni psichiche sono poste al vaglio delle tecniche, dall’altro la sperimentazione costituisce un banco di prova per le tecniche stesse e per i ragionamenti interpretativi degli esiti, su cui si basa il senso che attribuiamo ai risultati. 

In questa prospettiva, lo studio condotto da Newberg e d’Aquili su suore appartenenti ad un ordine francescano, l’anno successivo alla pubblicazione del lavoro sui buddisti appena discusso, può assumere un valore di verifica (Newberg, Pourdehnad, Alavi e d’Aquili, 2003). 

5. Le suore francescane e le donne “glossolaliche”. 

I ricercatori della Divisione di Medicina Nucleare dell’Università della Pennsylvania hanno deciso di concentrare l’attenzione sulla fase più intima ed intensa dell’esperienza spirituale, perciò hanno scelto tre delle religiose cattoliche che soddisfacevano il criterio di accedere ad un’intensa e profonda partecipazione, e le hanno sottoposte a SPECT durante una preghiera meditativa caratterizzata dalla ripetizione mentale di una formula verbale. In questa condizione, le suore vivevano la sensazione di essere estremamente vicine a Dio, fino a sentirsi in una completa comunione spirituale col divino. 

Il profilo di attivazione cerebrale delle religiose cristiane per alcuni aspetti ricalcava quello dei buddisti ma, soprattutto, ha reso evidente che durante la meditazione hanno luogo vari processi cognitivi fra loro coordinati, che richiedono un affinamento metodologico per essere studiati[10]

E’ stato obiettato che, con le attuali metodiche, lo studio del correlato funzionale di uno stato di estasi meditativa è molto aspecifico e rischia di non avere un vero e proprio rapporto con il vissuto religioso. Secondo tale posizione critica, andrebbero studiati e confrontati vari aspetti della vita spirituale, e i ricercatori dovrebbero essere attenti a tutti i fenomeni che interessano la coscienza del soggetto producendo effetti comunicabili. 

Fra i ricercatori sensibili a questa prospettiva c’è lo stesso Newberg che, non molto tempo fa, ha avuto modo di studiare la funzione cerebrale durante un evento eccezionale noto come glossolalia o dono delle lingue, fenomeno che si verifica spontaneamente durante stati di intenso fervore religioso e consistente nell’esprimersi con parole spesso incomprensibili ai presenti e perciò considerate appartenenti ad idiomi stranieri. 

Andrew Newberg e i suoi colleghi hanno esaminato l’attività cerebrale di cinque donne che, all’acme di un’esperienza mistica, articolavano espressioni verbali insolite, suggestivamente accostabili al dono di parlare lingue sconosciute, ed hanno paragonato i reperti a quelli di cinque persone impegnate in canti religiosi (gospel). Il risultato evidenziava, nelle donne in trance mistica, una caduta di attività nei lobi frontali. Poiché questa parte del cervello ha un ruolo importante nell’autocontrollo e nei processi cognitivi coscienti, i ricercatori concludono che la singolare prestazione linguistica è il semplice effetto della perdita di questa funzione di controllo[11]

In proposito si deve osservare che, in psichiatria, una lunga tradizione aveva associato tali manifestazioni alla personalità isterica e le aveva attribuite ad uno stato dissociativo descrivibile come perdita dell’inibizione esercitata dal controllo corticale cosciente su processi non coscienti[12]. Se a questo si aggiunge che, in chiave neuropsicologica, il controllo inibitorio è attribuito alla corteccia dei lobi frontali, si può affermare che i risultati di questo studio non aggiungono nulla di concettualmente nuovo al quadro interpretativo tradizionale e, soprattutto, non consentono di mettere in relazione il fenomeno con una specifica esperienza religiosa e con un processo cerebrale esclusivo del “parlare le lingue”. 

Gli autori dello studio osservano, tuttavia, che dalla sperimentazione si ricava un interessante spunto per una riflessione critica sull’impostazione “patogenetica” delle tradizionali spiegazioni di tali manifestazioni. Infatti, gli elementi emersi dall’esame delle cinque donne, non consentono di far rientrare nella psicopatologia l’insolito fenomeno locutorio, non più di quanto lo si possa fare per il parlare nel sonno, in corso di ipnosi o di un rilassamento profondo. Secondo Newberg e i suoi collaboratori, questi risultati sono una prova ulteriore di capacità intrinseche del nostro cervello e non espressione di patologia. 

D’altra parte, Newberg e d’Aquili avevano ricavato dai propri studi una visione opposta a quella di Geschwind, Bear e Persinger[13], e già espressa in un saggio pubblicato nel 2001, nel quale si legge: “Noi non crediamo che le vere esperienze mistiche possano essere interpretate come il risultato di allucinazioni epilettiche o come il prodotto di altri stati allucinatori indotti da droghe, malattia, prostrazione fisica o deprivazione sensoriale. Le allucinazioni, non importa quale ne sia la fonte, semplicemente non sono capaci di fornire alla mente un’esperienza così convincente come quella della spiritualità mistica[14]

E più avanti: “Al cuore della nostra teoria c’è un modello neurologico che fornisce un legame fra l’esperienza mistica e il funzionamento cerebrale osservabile. In termini semplici, il cervello sembra avere la capacità intrinseca (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale. Noi abbiamo teorizzato che questo talento per l’auto-trascendenza è alla radice del bisogno religioso[15]

L’aspetto che ha maggiormente attratto l’attenzione di altri studiosi - in questa ricerca di una fisiologia della spiritualità nel cervello - è la dimostrazione di attività in varie aree dell’encefalo, in particolare le evidenze, nello studio delle tre suore menzionato in precedenza, di diversi processi fra loro coordinati. Mario Beauregard e i suoi collaboratori dell’Università di Montreal, che si erano prefissi di accertare se esista una specifica base per la coscienza mistica nel lobo temporale e se la contemplazione mistica produca stati cerebrali non associati alla coscienza ordinaria, hanno ricevuto uno stimolo significativo da questo studio. 

6. Beauregard e Paquette verificano le tesi di Persinger. 

I ricercatori canadesi nutrivano molti dubbi sull’esistenza del “God Spot” teorizzato da Persinger, tuttavia sapevano che questa tesi si era basata sull’esame di centinaia di volontari, mentre le evidenze di una pluralità di circuiti erano affidate solo alle immagini delle tre religiose ottenute mediante SPET, una metodica con bassa risoluzione spaziale e da molti ritenuta obsoleta. Per questo si sono proposti lo studio di un numero più elevato di suore mediante fMRI e QEEG. 

Delle caratteristiche della risonanza magnetica funzionale si è già detto, a ciò si aggiunga che l’équipe canadese dispone di un’apparecchiatura all’avanguardia e di una discreta esperienza nell’uso di tecniche di neuroimaging maturata presso il CRIUGM (Centro di Ricerca dell’Istituto Universitario di Geriatria di Montreal) e il CERNEC (Centro di Ricerca in Neuropsicologia e Cognizione). Per ciò che riguarda l’elettroencefalografia quantitativa (QEEG), si può dire, in sintesi, che consiste nel rilievo di patterns elettrici di onde cerebrali, nella loro analisi statistica e nella successiva traduzione, secondo una scala cromatica, in immagini a colori. 

Bauregard e colleghi, non senza difficoltà, sono riusciti ad ottenere un campione costituito da 15 carmelitane che, dopo un’accorta e rispettosa opera di persuasione[16], hanno accettato di lasciare il ritiro claustrale per sottoporsi ad uno studio volto a verificare l’ipotesi della partecipazione di numerose aree cerebrali alla fisiologia degli stati mistici[17], con l’impiego di procedure e metodi in grado di fornire dati di gran lunga più dettagliati e specifici di quelli ottenuti in passato. 

Vincent Paquette, studente di dottorato di Beauregard, aveva suggerito lo studio della “unio mystica”, ossia uno stato di totale unione con Dio, raggiunto mediante la preghiera contemplativa. Per questo la scelta è caduta sull’ordine delle carmelitane, suore che nella loro vita di contemplazione hanno il fine dell’unione spirituale col divino. 

E’ vero che un’intensa esperienza mistica, percepita come un cambiamento dello stato di coscienza così profondo da modificare la percezione di sé e del mondo, si verifica solo una o due volte in tutta la vita di una religiosa, ma è pur vero che un costante esercizio all’orazione contemplativa facilita il raggiungimento di condizioni mentali di serena quiete e di gioia, che non hanno riscontro nella quotidiana esperienza di molti, anche fra i religiosi. 

Inizialmente i ricercatori, un po’ ingenuamente, avevano immaginato che le suore potessero giungere alla “unio mystica” durante gli esperimenti, ma Sister Diane, la madre superiora del Convento delle Carmelitane di Montreal, ridendo aveva osservato: “Dio non può essere convocato a richiesta.”[18]

L’osservazione non è stata priva di conseguenze, ed ha infatti avviato un dialogo ed una riflessione sul modo di condurre gli esperimenti stessi. A proposito della ricerca volontaria dell’esperienza mistica, la religiosa aveva avvertito: “Non puoi cercarla. Più accanitamente la cerchi, più a lungo dovrai aspettare[19]. I ricercatori hanno fatto tesoro delle sue parole e le hanno tradotte in termini neurofunzionali: l’intenzione volontaria può creare un’interferenza, un disturbo (mental noise), che dovrà poi essere eliminato per ottenere la condizione più adatta allo stato contemplativo. 

Nella definizione del protocollo si è deciso di ricorrere alla rievocazione, secondo il seguente schema sperimentale: 

1) rievocazione o riviviscenza delle più significative esperienze mistiche vissute in precedenza (condizione mistica); 

2) rievocazione o riviviscenza del più intenso stato di unione esperito con una persona facente parte dell’ordine religioso (condizione affettiva); 

3) stato di riposo come riferimento di base (condizione neutra). 

In tutti e tre i casi, gli occhi dovevano rimanere chiusi. La condizione affettiva del punto “2” è stata concepita come controllo diretto di quella mistica: un confronto fra i correlati neurali dei due stati avrebbe potuto consentire di rilevare differenze e ipotizzare eventuali specificità. Lo stato di riposo era stato previsto come controllo generale. 

Su questa base sono stati allestiti due differenti studi. 

STUDIO 1 (fMRI): ATTIVITÀ CEREBRALE DURANTE UN’ESPERIENZA MISTICA. 

STUDIO 2 (QEEG): CORRELATI NEUROELETTRICI DELL’UNIONE MISTICA. 


STUDIO 1 (fMRI): ATTIVITÀ CEREBRALE DURANTE UN’ESPERIENZA MISTICA. 

Lo scopo principale di questo studio era l’accertamento dell’esistenza di un’area più attiva di altre nel corso dell’esperienza mistica. In altre parole, Bauregard, Paquette e gli altri collaboratori, sottoponevano a verifica sperimentale l’esistenza di quel “God Spot” che Michael Persinger aveva localizzato nel lobo temporale. 

Le 15 suore, nelle tre condizioni definite (mistica, affettiva e basale), sono entrate nel vano di scansione dell’apparecchio per la fMRI, dove il sistema tomografico ogni 3 secondi ha registrato l’attività cerebrale nelle sezioni craniche prescelte, ottenendo un quadro funzionale di tutto l’encefalo ogni 2 minuti circa. 

Finita la prova, l’interpretazione delle immagini si è basata sul confronto fra lo stato di rievocazione dell’esperienza mistica e gli altri due stati di controllo. I ricercatori hanno anche voluto mettere in rapporto i dati oggettivi con il vissuto soggettivo delle religiose[20], impiegando un’intervista non strutturata e due riferimenti utili per la comparazione con altri studi: una scala di intensità soggettiva da 0 a 5[21] e la “Hood’s Mysticism Scale”. 

La scala di Hood non è stata concepita per la spiritualità cristiana, perciò i ricercatori non hanno potuto applicarla integralmente, ma hanno dovuto selezionare le 15 domande corrispondenti alle voci più vicine alla concezione delle suore; qui di seguito si riportano i tre items che descrivevano l’esperienza delle carmelitane. 
Durante le interviste condotte al termine dell’esperimento, le suore hanno detto di aver sentito la presenza di Dio e del suo incondizionato ed infinito amore, oltre ad una sensazione di pienezza e di pace. Tutte hanno precisato che la rievocazione dell’esperienza mistica richiesta dai ricercatori, aveva generato una condizione di coscienza diversa da quella che avevano quando cercavano di auto-indurre lo stato di comunione col Signore. Nel rievocare, si è spesso attivata un’immaginazione visiva e motoria. 

E’ importante notare che anche nella condizione di controllo le suore hanno provato un sentimento di amore incondizionato. 

Il principale risultato di questo studio è consistito nel rilievo di almeno 6 distinte regioni encefaliche attive solo durante la reminescenza dell’esperienza mistica: il nucleo caudato, l’insula di Reil, il lobulo parietale inferiore, la corteccia orbito-frontale, la corteccia prefrontale mediale e la corteccia temporale media di destra, oltre ad aree quali la corteccia visiva e il tronco encefalico nell’antimero di sinistra. 

Il nucleo caudato è una formazione grigia della base encefalica, parte del corpo striato, che svolge un importante ruolo nell’apprendimento di procedure motorie e nella formazione di memorie in varie altre forme di conoscenza; sebbene sia tradizionalmente messo in relazione con la neurofisiologia del movimento, recentemente è stata dimostrata la sua attività nell’innamoramento. A quest’ultima evidenza sperimentale fanno riferimento Bauregard e colleghi, nell’ipotizzare che la base neurale del sentimento di amore incondizionato, provato dalle suore durante l’esperienza mistica, consista in un processo che ha il suo fulcro nei neuroni del nucleo caudato. 

L’insula, così detta da Reil perché circondata da un solco che la delimita topograficamente come un’isola (insula di Reil), è una formazione grigia situata nella fossa laterale del cervello ed implicata nel controllo di alcune sensazioni corporee, nella regolazione delle emozioni sociali e in comportamenti legati ad alcuni tipi di piacere[22]. L’attivazione delle cellule nervose di quest’area è stata associata dai ricercatori alle sensazioni piacevoli provate durante la gioia per l’amore divino. 

L’aumento di attività nel lobulo parietale inferiore è un reperto di grande interesse, perché in contrasto con i risultati ottenuti in precedenza dagli altri ricercatori e, in particolare, con quelli dei gruppi di Newberg e Davidson, che abbiamo esaminato in precedenza. In questi studi, il crollo di attività in gran parte del lobo parietale era stato registrato in volontari buddisti[23], pertanto la differenza può essere attribuita alla diversa esperienza e, sia pure con la dovuta prudenza, ad uno stato mentale che riflette una condizione spirituale diversa. Secondo i ricercatori canadesi, l’attività di aree parietali che mediano funzioni connesse con la coscienza del corpo, corrisponde alla sensazione di essere, nell’integrità della propria persona, “assorbita da qualcosa di più grande di me”, secondo la voce della Hood’s Mysticism Scale scelta dalle religiose del Carmelo. 

STUDIO 2 (QEEG): CORRELATI NEUROELETTRICI DELL’UNIONE MISTICA. 

Lo stesso campione di 15 suore carmelitane dello studio condotto con fMRI, è stato sottoposto nelle stesse condizioni (mistica, affettiva e di base) ad indagine mediante QEEG, in una piccola stanza oscurata, in isolamento acustico ed elettromagnetico, con la sola eccezione di una telecamera a raggi infrarossi che ha consentito ai ricercatori l’osservazione costante delle religiose. Un tale ambiente ha facilitato il raccoglimento e l’immersione in se stessi. 

Per definire la corrispondenza fra i dati QEEG e l’esperienza soggettiva, è stata impiegata la procedura dell’esperimento precedente, ma la descrizione di ciò che hanno provato le suore ha fatto aggiungere altre tre voci a quelle prescelte dalla “Hood’s Mysticism Scale”. Le tre nuove frasi, che riportiamo nella tabella seguente, testimoniano una maggiore intensità. 

Come nello studio precedente, varie suore hanno riferito di aver sentito la presenza di Dio e del suo amore incondizionato e infinito, oltre a sensazioni di pienezza e di pace; in più hanno provato come un abbandono nello Spirito del Signore.


La rievocazione di un’esperienza mistica vissuta in passato ha dato ottimi risultati in questo esperimento, ad esempio Sister Nicole, che ha rievocato una unio mystica raggiunta da ragazza, ha riferito che il ricordo e l’esperienza attuale si erano fusi nella sua coscienza e, mentre era in tale stato, con una voce sognante ed appagata ha detto di stare ascoltando il Canone di Pachelbel[24]. La religiosa, lasciando la stanza insonorizzata alla fine della registrazione QEEG, ha commentato: “non mi sono mai sentita così amata”. 

Una vita di preghiera e contemplazione nel silenzio del convento, ha consentito alle carmelitane di sentirsi a proprio agio nell’isolamento visivo ed acustico dell’esperimento, equivalente al pregare in una piccola cella buia. E’ importante sottolineare che, provando a rievocare una condizione mistica, le suore sono riuscite, in parte, a riviverla: cosa mai accaduta in precedenza e dalle stesse religiose ritenuta impossibile prima dell’esperimento[25]

I correlati neuroelettrici hanno mostrato, rispetto alle due condizioni di controllo, una generale presenza di onde lente (attività theta) particolarmente evidente in alcune aree dei lobi parietali e temporali, ma rilevata anche nella corteccia anteriore del giro del cingolo e nella corteccia prefrontale mediale[26]

Tali rilevi sono coerenti con il cambiamento di stato di coscienza, come dimostrato in precedenti studi condotti su soggetti in Sahaja Yoga e in un tipo di meditazione Zen detta Su-soku, tuttavia si discostano dai reperti di incremento di attività theta limitato ai lobi frontali, tipico di queste esperienze meditative orientali. 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SUI RISULTATI DEGLI STUDI fMRI E QEEG. 

Presi insieme, i risultati di questi due studi documentano un’attività cerebrale estesa e complessa, che confuta definitivamente l’ipotesi di un unico centro localizzato nel lobo temporale con funzione di base neurale delle esperienze mistiche. 

Un secondo aspetto rilevante è dato dall’esito del confronto fra lo stato mentale che si produce nella riattualizzazione di un’esperienza mistica e quello seguito alla rievocazione dell’affetto provato per un’altra persona: le basi neurali risultano notevolmente diverse. 

Le aree cerebrali identificate, soprattutto mediante fMRI, si discostano in parte da quelle individuate in altri studi, e questa differenza potrebbe essere spiegata sia sulla base della diversa esperienza legata alla religione[27] (meditazione buddista, in molti lavori) sia perché Beauregard e Paquette sono riusciti ad ottenere quadri funzionali durante lo sviluppo di un’esperienza mistica attuale. 

L’aumento diffuso dell’attività theta, ossia delle onde lente, indica una modificazione di funzioni neurali alla base della coscienza e concorda con quanto rilevato mediante QEEG in precedenti studi su volontari in Sahaja Yoga o in Su-soku; ma, se si considera la distribuzione delle onde theta nelle suore carmelitane, il profilo risulta alquanto diverso, non prevalendo nel lobo frontale come nei buddisti, ma in una serie di altre aree, fra cui l’insula, la corteccia parietale e temporale, la corteccia del giro del cingolo, ecc. 

Ulteriori studi potrebbero definire se i patterns, considerati dai ricercatori canadesi corrispondenti al vissuto soggettivo durante le esperienze mistiche ed affettive, possano essere almeno in parte generalizzati, e se alcune delle differenze riscontrate possano essere attribuite alle diversità oggettivabili in termini di contenuti mentali e credo religioso. 

In una sintesi schematica, qui di seguito riassumiamo in quattro punti concettuali gli aspetti di maggior rilievo. 

1) La base neurale delle esperienze mistiche studiate, costituita da 6 aree di maggiore attività e da numerosi altri raggruppamenti neuronici attivi, confuta definitivamente l’ipotesi di un “God Spot” unico, sostenuta da Michael Persinger. 

2) Le basi neurali delle esperienze mistiche sono diverse da quelle dei semplici stati affettivi. 

3) La contemplazione cristiana delle suore carmelitane ha fatto registrare quadri funzionali diversi da quelli rilevati in varie forme di meditazione. 

4) L’attualità dell’esperienza mistica ha mostrato un profilo funzionale cerebrale diverso da quello registrato in corso di auto-induzione. 


7. Il tipo di pratica religiosa e perfino le convinzioni dei praticanti potrebbero influenzare i quadri di fisiologia encefalica. 

Gli studi più importanti, come abbiamo visto fin qui, sono stati condotti su buddisti in meditazione e su religiose cristiane in contemplazione, in genere assumendo un’ipotetica equivalenza fra stati mentali indotti da due pratiche fondate su concezioni e tradizioni tanto diverse. In un certo senso, nel ritenere equivalenti lo stato meditativo e quello contemplativo, si è fatto di necessità virtù, per la nota impossibilità di accedere ai contenuti mentali con procedure che li rendano oggettivi. 

Infatti, se con le metodiche di studio attualmente impiegate si può facilmente distinguere un cervello attivamente impegnato nell’elaborazione di un pensiero da uno passivamente disposto al riposo, non è possibile leggere i contenuti ideativi, ed è oltremodo difficile ricondurre i patterns di attivazione osservati ad esperienze soggettive o a processi di elaborazione non cosciente. 

In altre parole, in questi studi la ratio interpretativa indotta dalla necessità, assimila le differenze legate alla religione a contenuti inesplorabili e, per questo, non rilevanti ai fini della ricerca. Riteniamo, invece, che differenze quali l’opposto comportamento dei lobi parietali nei buddisti e nelle suore, siano meritevoli di attenzione e possano essere oggetto di una riflessione che tenga conto della possibile influenza del tipo di pratica religiosa sulla neurofisiologia encefalica. 

In proposito, osserviamo che la netta separazione fra stato cerebrale e suo contenuto, come se il primo fosse un semplice contenitore materiale del secondo[28], può nascondere un’insidia interpretativa non di poco conto, consistente nell’assumere la mai dimostrata indipendenza delle funzioni cerebrali che caratterizzano gli stati di coscienza da ciò che si pensa e dal modo in cui ciascuno, per effetto di cultura collettiva ed evoluzione individuale, adopera il proprio cervello. 

Si pensi, ad esempio, al diverso modo di concepire la coscienza da parte di buddisti e cristiani: sulle prime sembra possibile ridurre tutto ad una questione che riguarda la coscienza morale e non quella neurologica, intesa come stato vigile che consente l’orientamento nel tempo e nello spazio, ma ad una riflessione più attenta, si può osservare che il diverso modo di concepire il soggetto, il suo essere nel mondo e rapportarsi con la realtà, può incidere sulla coscienza tout court, potendo determinare un diverso assetto di alcuni correlati neurofunzionali degli stati mentali. Per questo motivo ci sembra utile discutere, sia pur brevemente, alcune differenze fra i due tipi di ispirazione religiosa. 

Nel buddismo, come in altre espressioni della religiosità orientale, si suppone l’esistenza di uno stato cosmico di stabile equilibrio al quale il soggetto deve tendere ad appartenere. Per ottenere questa immaginaria fusione e percepire l’effetto benefico di un’armonia interiore, è necessario rinunciare alle istanze della volontà individuale ed indebolire la coscienza; infatti la maggior parte delle pratiche induce stati pre-ipnotici. 

La coscienza per il cristiano è il luogo dell’incontro con Dio[29], la dimensione dell’essere in cui il soggetto veglia sul rischio di abbandonarsi agli istinti e sorveglia se stesso per evitare di distrarsi dal suo allocutore[30] e cedere alle lusinghe del mondo. 

I cristiani, cattolici, protestanti ed ortodossi, fondano la propria spiritualità sul libero accoglimento della legge dell’amore, che sancisce un patto individuale con la divinità, in base al quale saranno giudicati[31]. Il libero arbitrio, somma espressione della libertà di coscienza, è il presupposto imprescindibile perché si abbia, nell’esercizio della volontà messa alla prova[32], la scelta dell’imitazione di Gesù Cristo. 

E’ in questa consapevolezza che assume valore lo scioglimento dei vincoli che legano l’uomo all’istinto e la loro sostituzione con i legami di responsabilità. Ed è nella consapevolezza condivisa, che si esercita il valore di testimonianza dell’agire cristiano. Scelta, responsabilità e testimonianza, tre cardini per la nascita e la manifestazione della fede, sono funzione della coscienza individuale, così come la vigilanza, ossia la sorveglianza di sé nella costante attenzione all’esercizio della virtù. 

Questa profonda differenza fra le religioni affermatesi in Oriente e in Occidente, ci aiuta a capire il ruolo differente della pratica rituale in queste due realtà. 

Nel primo caso l’esercizio quotidiano ha per obiettivo diretto la genesi di stati psico-somatici assimilabili ad un rilassamento profondo[33] e considerati manifestazione nell’essere di ciò in cui si crede; nel secondo caso, le principali espressioni del culto, dalle orazioni del mattino all’esame di coscienza serale[34]richiedono attenzione consapevole. 

A corollario di questa distinzione schematica[35], vogliamo citare il caso di una pratica religiosa presente fra i cristiani d’Oriente, consistente nella reiterazione di una formula - ad esempio un’invocazione - centinaia di volte. E’ evidente la somiglianza con le tradizioni asiatiche di lunga e monotona ripetizione di suoni o parole che generano calma e rilassamento. 

Per la comprensione del rapporto fra dimensione religiosa e dimensione spirituale, è utile rilevare che, mentre nel buddismo pratica rituale ed esperienza spirituale largamente coincidono, nell’ispirazione più profonda ed originaria della vita cristiana, le pratiche rituali hanno valore solo in funzione del sostegno che possono dare allo spirito. Infine, ricordiamo che il cristianesimo non nasce come una religione, ma come la testimonianza di un fatto verificatosi presso un popolo che professava l’ebraismo: l’incarnazione di Dio nella persona di Gesù Cristo. 

8. Problemi metodologici ed interpretativi sollevati dagli studi presentati. 

Sono state formulate critiche, anche aspre e radicali, ai lavori fin qui illustrati, ma tali obiezioni non riguardano in senso stretto il valore dei dati emersi ma, piuttosto, le interpretazioni e le conclusioni tratte dagli autori o da altri interpreti di tali risultati. 

Ad esempio, Beauregard interpreta gli esiti della sua sperimentazione come una prova evidente che gli stati mistici siano mediati da una rete ben distribuita nell’encefalo e, d’altra parte, sarebbe difficile sostenere l’esistenza di un singolo “God spot” in presenza di tanti distretti encefalici funzionanti; tuttavia, questa non è l’unica lettura possibile dell’attivazione contemporanea di varie aree. 

Allo stesso modo, si può dire che il significato fisiologico attribuito dagli autori dei lavori alle aree attive, può avere delle alternative. Pertanto, una riflessione critica consente di porsi problemi come quelli qui di seguito schematizzati. 

1) Non si dispone di banche-dati che consentano di escludere con certezza che i patterns di attivazione registrati con metodiche di neuroimaging siano, anche solo in parte, aspecifici. 

2) Le caratteristiche specifiche di un’esperienza potrebbero consistere nel tipo di comunicazione esistente fra le aree e non essere riconducibili alle aree attive per sé. 

3) Alcuni caratteri dell’esperienza potrebbero richiedere gruppi neuronici fissi e gruppi variabili, i primi legati ad uno specifico territorio dell’encefalo, e i secondi capaci di una funzione indipendente dalla localizzazione, ossia siti in aree diverse, ma svolgenti lo stesso compito. 

4) Molte attività cerebrali si fondano su processi di brevissima durata ai quali sono “cieche” le tecniche attualmente in uso: se si dimostrasse che l’esperienza mistica nei suoi aspetti più caratterizzanti si basa su simili processi, gli studi condotti finora perderebbero ogni valore. 

I problemi proposti ai punti “1” e “2” in forma analitica, rimandano alla più generica critica al modo corrente di interpretare i risultati ottenuti con metodiche di neuroimaging, consistente nell’interpretare lo stato fisiologico da studiare sulla base dei ruoli attribuiti negli studi precedenti alle singole aree che nel nuovo studio appaiono funzionanti. Una tale procedura sarebbe altamente affidabile se il cervello fosse organizzato per moduli discreti monofunzionali, localizzati ciascuno in un definito territorio. 

A questa nuova tendenza localizzatrice, che è stata accostata all’ingenua organologia ottocentesca di Gall e Spurzheim[36], “Brain, Mind & Life” ha dedicato molta attenzione (si veda, ad esempio: Note e Notizie 27-05-05 Una nuova frenologia con la risonanza magnetica nucleare; Note e Notizie 07-10-06 Immagini funzionali del cervello degli adolescenti) e riservato severe critiche. 

Nella stessa ottica critica Seth Horowitz, neuropsicologo della Brown University, si è così espresso riguardo al rilievo di aree attive durante un’esperienza mistica: “Tu elenchi un gruppo di luoghi nel cervello come se denominare qualcosa ti consentisse di comprenderla[37]. Vincente Paquette, collaboratore di Beauregard nei due citati studi del cervello di 15 suore carmelitane in meditazione, non ha remore nel paragonare alla frenologia di quasi due secoli fa, la maniera in cui molti suoi colleghi tendono ad interpretare i risultati della risonanza magnetica funzionale (fMRI). 

Alcuni critici sostengono che la “neuroscienza dello spirito” non potrà mai indagare lo specifico vissuto umano di una religione, perché tale specificità deriverebbe dal complesso di tutte le sue componenti e non consisterebbe nei processi mentali caratteristici di una singola pratica. Infatti, l’esperienza religiosa può cambiare la vita di una persona interessandone ogni aspetto, dal modo di concepire se stessi, al modo di rapportarsi agli altri in ogni circostanza: se si isola un singolo aspetto, ad esempio la generosità verso il prossimo, si troveranno correlati neurofunzionali che prescindono dai connotati di uno specifico credo, e sarebbero identici se l’atteggiamento generoso fosse originato dall’adesione ad un’organizzazione umanitaria, ad un partito politico o alle regole di un contesto culturale. 

In risposta a questa critica alcuni ricercatori ritengono che si debba cercare di definire l’esperienza religiosa nel miglior modo possibile, individuando caratteri comuni a varie religioni ed elementi distintivi, e poi provando ad identificare basi neurobiologiche per tali caratteristiche. 

A questo proposito si può osservare che alcune differenze neurofunzionali fra spiritualità buddista e cristiana, ossia le due maggiormente indagate, sono state individuate nel confronto fra gli stati meditativi[38] e, sebbene non vi sia accordo generale sull’interpretazione dei correlati neurobiologici[39], è possibile che presto i risultati di nuovi studi aiutino a leggere le differenze sulla base di nuovi confronti. Il gruppo di Newberg, infatti, ha deciso di studiare il cervello di fedeli dell’islam e della religione ebraica durante la preghiera, cercando di indagare gli aspetti caratteristici dell’attività encefalica nel corso di varie espressioni religiose di queste due grandi esperienze monoteistiche[40]. Il confronto fra tutti i risultati potrebbe fornire una prima chiave interpretativa basata su somiglianze e differenze. 

Davidson ritiene, invece, che gli sforzi di definizione dell’esperienza religiosa per comprenderne la base neurale non siano la via giusta da seguire, e propone una soluzione opposta. 

Lo studio delle basi biologiche della cognizione e delle emozioni nell’uomo ha presentato ostacoli insormontabili fino a quando non si è scelta la scomposizione in elementi riconducibili alla percezione, all’attenzione e alla memoria; allo stesso modo, secondo Davidson, per studiare efficacemente la neurofisiologia della spiritualità, bisognerebbe decodificarla in termini di cambiamenti nell’attività dei tre sottosistemi, percettivo, attentivo e mnemonico: “La nostra unica speranza è specificare ciò che accade in ciascuno di quei sottosistemi”[41]

9. Primi risultati applicativi. 

I lavori di più recente pubblicazione attinenti alla “ricerca dello spirito nel cervello” possono essere schematicamente raggruppati in due categorie: 

1) quelli con obiettivi riconducibili alla ricerca delle basi neurobiologiche delle manifestazioni delle fedi e delle religioni, e 

2) quelli tesi ad isolare correlati funzionali di esperienze positive, per estrapolarli dal contesto religioso ed impiegarli a scopo terapeutico. 

La ricerca attualmente condotta dal gruppo di Davidson si può ricondurre al secondo dei due indirizzi, che ha già ottenuto risultati di rilievo, dimostrando l’efficacia della meditazione nel determinare due effetti: 

a) aumento delle abilità cognitive dipendenti dall’attenzione, 
b) rallentamento dell’invecchiamento. 

Aumento delle abilità cognitive dipendenti dall’attenzione. 

Sono stati sottoposti ad una prova di capacità attentiva, dal team di Davidson, 17 volontari che in precedenza avevano compiuto tre mesi di training intensivo in meditazione e 23 principianti dell’esercizio meditativo. Il test consisteva nel distinguere, in sequenza, due numeri inclusi in una serie di lettere. 

I principianti hanno fatto registrare prestazioni nella media, ossia, come la maggior parte delle persone sottoposte a questa prova, non riconoscevano il secondo numero perché ancora concentrati sul primo (attentional blink); i meditatori esercitati, al contrario, riuscivano spesso a rilevare entrambi i numeri.  

Il risultato di questo esperimento si può attribuire ad un miglioramento della concentrazione per effetto dell’intensa pratica meditativa. Il lavoro del gruppo di Davidson, pubblicato nel giugno 2007, può ritenersi emblematico nell’ambito degli studi che hanno riscontrato un miglioramento delle prestazioni cognitive conseguente ad una più efficace capacità di concentrazione dovuta all’esercizio meditativo. 

Rallentamento dell’invecchiamento. 

La meditazione sembra in grado di ritardare lo sviluppo di alcuni segni di invecchiamento cerebrale, come è stato rilevato da Sara Lazar e colleghi della Harvard University; già in un articolo pubblicato su Neuro Report nel 2005, il confronto fra 20 meditatori esperti e 15 soggetti di controllo, aveva fatto registrare nei primi un maggiore spessore in varie aree della corteccia cerebrale. 

In particolare, la corteccia prefrontale e la parte anteriore dell’insula di destra, erano da 4 a 8 millesimi di pollice più spesse nei meditatori che nei controlli. E’ interessante che i soggetti più anziani presentavano i maggiori incrementi di spessore: il contrario di quanto accade ordinariamente per effetto dell’invecchiamento. 

I primi esiti di questa sperimentazione hanno già indotto alcuni ricercatori a valutare l’applicazione a scopo terapeutico degli effetti benefici del meditare. Newberg, ad esempio, ha avviato un’indagine sui pazienti oncologici e sulle persone che per varie cause sono andate incontro a perdita precoce della memoria[42]. Negli ammalati di cancro si vuol verificare se la meditazione può alleviare lo stress e le sue conseguenze sui sintomi e sul decorso della malattia, e se può ridurre la tristezza e l’ideazione depressiva derivanti dallo stato fisico e dalla consapevolezza della gravità. Nei pazienti amnesici si vuol provare ad ottenere, mediante l’esercizio meditativo, un miglioramento di processi cognitivi elementari a supporto della neurofisiologia della memoria. 

10. Considerazioni Conclusive. 

Se la “Spiritual Neuroscience” vuole rivendicare il diritto all’esistenza come branca distinta di studi, non può certo limitare i suoi interessi alle applicazioni terapeutiche della meditazione, ma deve approfondire ogni aspetto dell’influenza dell’esperienza spirituale sui processi cerebrali, dalle modificazioni fisiologiche nella correlazione mente-corpo, ad un diverso atteggiamento verso il mondo. 

Questo tipo di ricerca è solo agli inizi, e gli studi finora condotti non sono stati intrapresi sulla base di programmi e protocolli concepiti nell’ottica della dimensione spirituale intesa come realtà neurofunzionale. Ad esempio, è stata studiata l’influenza su parametri immunologici dell’assistere a guarigioni nel corso di cerimonie religiose, o sono stati valutati gli effetti sul sistema immunitario di un film dagli intensi contenuti di fede e speranza, ma non si è ancora provato a definire il pattern cerebrale neuroimmunologico che rende queste esperienze più efficaci nei credenti. 

A questo riguardo le neuroscienze dello spirito stanno avviando un affascinante collegamento con la psiconeuroimmunologia, prendendo le mosse dagli effetti sul sistema immunitario degli stati mentali che rientrano nella definizione di affetto positivo (positive affect). Riportiamo di seguito uno stralcio della discussione del presidente di BM&L all’incontro di giovedì 24-01-08 del Seminario Permanente sull’Arte del Vivere. 

L’uso del termine “affetto” è consolidato in psichiatria, psicologia e neuroscienze in generale, nel significato che Aristotile attribuiva alla parola greca corrispondente al termine latino affectus, ossia stato interno derivante da una condizione esterna. Sebbene la letteratura scientifica sui rapporti fra fenomeni biologici e sentimenti, emozioni ed affetti, faccia costantemente riferimento alla categoria “positive affect” (PA), ossia affetto positivo, non esiste ancora una definizione unanimemente accettata. 

"In “Psychoneuroimmunology” (Ader, 2007) Marsland, Pressmann e Cohen adottano la definizione di Clark (Clark et al., 1989): “si definiscono PA quei sentimenti che riflettono un livello di impegno piacevole con l’ambiente come la felicità, la gioia, l’eccitazione, l’entusiasmo e la contentezza”. Ma in molti studi per PA si intendono processi e manifestazioni psicologiche diverse e varie. In alcuni casi si tratta di costrutti cognitivi e motivazionali, quali l’auto-stima, l’ottimismo, l’estroversione, la propositività e la consapevolezza dell’abilità; in altri casi si tratta di complesse misure della qualità della vita e del benessere soggettivo. 

“Gli stati di PA sono stati associati con cambiamenti significativi nel sistema immune (Pressman e Cohen, 2005). I primi studi avevano rilevato un aumento di immunoglobuline A (IgA) di tipo secretorio, presenti nel sistema immune delle mucose e reperite in secreti come la saliva (Hucklebridge et al., 2000; Lambert e Lambert, 1995; McClelland e Cheriff, 1997). Questi studi, non sempre di facile interpretazione, sono stati criticati per le procedure seguite. Un approccio meno controverso ha impiegato la somministrazione di antigeni e la verifica della formazione del relativo anticorpo (IgA secretoria) con e senza l’induzione di affetto positivo: due studi hanno dato esito positivo, documentando un aumento del livello di IgA prodotta sotto l’effetto di PA (Stone et al., 1987; Stone et al., 1994), uno non ha confermato questo risultato (Evans et al, 1993). 

Gli studi più recenti hanno associato il PA con l’aumento di subpopolazioni di leucociti, ma il complesso degli studi offre risultati contraddittori alla luce delle attuali conoscenze. In un caso il PA ha determinato un effetto simile a quello generato da un agente stressante acuto (Segerstrom e Miller, 2004). 

“In passato l’induzione di PA aveva determinato l’aumento della risposta proliferativa linfocitaria allo stimolo con mitogeni (Futterman et al., 1992). 

L’induzione di un umore positivo, che potremmo paragonare alle sensazioni di chi si sente in uno stato di grazia[43], può associarsi a livelli più elevati di alcune citochine (IL-2, IL-3) e più bassi di altre, quali interferon-γ e TNF-α (Mittwoch-Jaffe et al., 1995). 

E’ stato rilevato da vari ricercatori un aumento di cellule NK nell’induzione di PA, ma uno studio, condotto negli anni Novanta e non ancora smentito da ricerche successive, aveva fatto registrare un incremento di NKCA sia nell’induzione di stati affettivi positivi, sia in quella di stati affettivi negativi; in entrambi i casi sembra che l’effetto sia stato mediato dall’attivazione dell’ortosimpatico (Futterman et al., 1994). […]” 

Questo stralcio dei dati proposti da Giuseppe Perrella è già sufficiente per rendersi conto di quanta strada vi sia ancora da percorrere per accertare e descrivere processi e meccanismi molecolari sottostanti gli stati psicofisici generati dalle esperienze spirituali. La determinazione, tuttavia, non manca in molti ricercatori, soprattutto fra quelli che più attivamente si stanno impegnando per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza e del valore dello studio delle basi neurobiologiche della dimensione trascendente. 

Beauregard sostiene che l’esperienza spirituale possa migliorare le funzioni del sistema immunitario e curare o prevenire disturbi psichici come la depressione, attraverso una visione positiva della vita che innesca circoli virtuosi nelle interazioni sociali ed innalza la soglia di squilibrio omeostatico ad eventi frustranti e stressanti. Paquette va oltre, sostenendo che la conoscenza degli elementi essenziali della fisiologia cerebrale della spiritualità potrà consentire la loro induzione in chiave terapeutica, modificando l’assetto funzionale di quei cervelli che sembrano disposti a generare scompensi psichici: “Noi potremmo generare una salutare ed ottimale matrice cerebrale[44]

Una cosa è certa, nessuno oppone più resistenza a questo genere di studi e molti si attendono risposte utili sia per la scienza che per la fede. D’altra parte, la precisa identificazione dei processi che consentono alle reti di cellule cerebrali di mediare esperienze mistiche, religiose e spirituali, se per i non credenti costituirà una conferma della natura biologica del fenomeno religioso, per i credenti potrà essere un motivo in più per credere in Dio: ritrovare impressa l’impronta indelebile della Sua immagine in quei sistemi neuronici che ci consentono, solo se lo vogliamo, di incontrarlo dentro di noi. 

Monica Lanfredini, Nicole Cardon & Giuseppe Perrella
BM&L-Novembre 2008 www.brainmindlife.org 

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Monica Lanfredini, Nicole Cardon & Giuseppe Perrella
BM&L-Novembre 2008 www.brainmindlife.org

[1] Sulla falsariga delle già numerose tecniche di rilassamento e meditazione, che spesso hanno tratto origine da pratiche teosofiche, filosofiche o religiose.

[2] Si veda: David Biello, Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[3] A distanza di quasi un secolo, il maggiore trattato di psichiatria americano, in una descrizione della personalità epilettica, includeva la “religiosità sentimentale” [Silvano Arieti (a cura di), Manuale di Psichiatria in 3 volumi, vol. II, p. 1270, Boringhieri, Torino 1969-1987, traduzione italiana dell’American Handbook of Psychiatry, Basic Books, New York 1959-1966].

[4] L’associazione costante di una qualità non presente in uno stimolo percepito, come ad esempio il colore verde al numero 3 e il rosso al numero 10, oppure un dato sapore ad un dato colore, è generalmente definita sinestesia. Considerata a lungo una semplice curiosità, il primo studio scientifico della sinestesia risale alla pubblicazione sulla rivista Nature, nel 1880, di un articolo firmato da Francis Galton. Attualmente per sinestesia si intende una condizione in cui una persona sperimenta l’associazione o la commistione di due o più sensazioni per effetto di un’anomala interazione fra aree cerebrali che in condizioni normali agiscono separatamente. Si veda su questo argomento: Note e Notizie 30-12-05 Sinestesia come finestra sulla natura del pensiero.

[5] Vilayanur S. Ramachandran & Sandra Blakeslee, Phantoms in the Brain: Probing the Mysteries of the Human Mind. William Morrow, New York 1998.

[6] Come vedremo più avanti, lo studio della neurofisiologia dello spirito è l’oggetto delle ricerche più recenti. Si può osservare che la posizione di Persinger sembra gravata dal fardello del pregiudizio della psichiatria ottocentesca, che considerava espressione di patologia ogni stato o fenomeno mentale ricondotto al soprannaturale.

[7] Michael Persinger, Neuropsychological Bases of God Beliefs. Praeger Publishers 1987.

[8] Si fa menzione di questo lavoro alla p. 41 di David Biello, Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[9] Si veda alla p. 42 di David Biello, Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[10] Come vedremo più avanti, Mario Beauregard dell’Università di Montreal ha studiato, mediante fMRI, 15 suore carmelitane che avevano risposto al suo appello nel quale si chiedeva la partecipazione a volontari “who have had an experience of intense union with God”. Beauregard ha scelto una procedura più specifica dello studio di uno stato meditativo.

[11] Dello studio, ancora in corso, gli autori hanno dato comunicazione nel 2006 (Newberg A. B., et al. The measurement of regional cerebral blood flow during glossolalia: a preliminary SPECT study. Psychiatry Research 148 (1), 67-71, 2006) e un riferimento si trova alla p. 42 dell’articolo di David Biello (Searching for God in the Brain. Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007).

[12] Attualmente in psichiatria sono descritte e classificate varie condizioni di coscienza alterata e crepuscolare che si accompagnano a forme di esecuzione verbale non comunicativa.

[13] Tre studiosi che avevano ricondotto le esperienze mistiche a forme di epilessia del lobo temporale e ad altri fenomeni patologici.

[14] Andrew Newberg, Eugene d’Aquili e Vince Rause, Why God Won’t Go Away: Brain Science and the Biology of Belief, p. 111, Ballantine Books, New York 2001.

[15] Andrew Newberg, Eugene d’Aquili e Vince Rause, op. cit., p. 174.

[16] I ricercatori ottennero che il cardinale Jean-Claude Turcotte, arcivescovo di Montreal, accettasse di scrivere una lettera indirizzata alle religiose, in cui si precisava che non vi era alcuna obiezione della Chiesa alla partecipazione allo studio. Tuttavia le suore, libere di accettare o rifiutare, si riservarono di valutare la proposta e, successivamente, la superiora del principale convento interpellato, riferì che alcune sorelle avevano deciso di partecipare, ma vincolavano il loro consenso all’accettazione, da parte della Templeton Foundation, della richiesta di finanziamento del progetto; probabilmente ritenendo la Fondazione un affidabile garante della serietà promessa dall’Università di Montreal. Dopo l’inizio della sperimentazione, si verificò un incidente che stava per mandare tutto a monte: il quotidiano “The Globe and Mail” pubblicò una foto - rubata non si sa come - della superiora, Sister Diane. Solo l’abile opera diplomatica di Vincent Paquette, riuscì a scongiurare il ritiro delle carmelitane.

[17] Ipotesi di Newberg e d’Aquili.

[18] Mario Beauregard & Denise O’Leary, The Spiritual Brain., p. 266, HarperOne - Harper Collins Publishers, New York 2007.

[19] Mario Beauregard & Denise O’Leary, op. cit., ibidem.

[20] E’ senz’altro un pregio di questo studio, perché si deve rilevare che in pochi altri casi sono state raccolte e registrate le descrizioni e le valutazioni della propria esperienza da parte dei volontari.

[21] Punteggi da 1 a 5 della scala soggettiva dell’intensità: nessuna esperienza di unione con Dio = 0; debolissima esperienza di unione con Dio = 1; debole esperienza di unione con Dio = 2; esperienza di unione con Dio di media intensità = 3; forte esperienza di unione con Dio = 4; la più intensa esperienza di Dio che abbia mai avuto nella mia vita = 5.

[22] Si veda “Note e Notizie 10-03-07 Insula di Reil e dipendenza dal fumo”.

[23] Buddisti tibetani, nel primo caso, e provenienti da ogni parte del mondo, nel secondo. L’esperienza di questi volontari era quella della dissoluzione dei confini corporei con la perdita dell’identità fisica

[24] Mario Beauregard & Denise O’Leary, “The Spiritual Brain”, p. 274, HarperOne - Harper Collins Publishers, New York 2007.

[25] Le suore, come dagli accordi presi con i ricercatori, hanno vissuto la partecipazione alla sperimentazione come un’occasione speciale di preghiera e testimonianza cristiana. Il loro atteggiamento era lontano da quello di chi riproduce artificialmente un comportamento perché si studi il proprio cervello in quella condizione; in un costante dialogo col Signore, le religiose hanno accettato gli esperimenti come momenti speciali di preghiera, nei quali una realtà vissuta nel proprio intimo poteva oggettivarsi mediante una dimostrazione scientifica.

[26] Uno studio EEG successivo delle 14 suore, pubblicato il 17 ottobre 2008, conferma sostanzialmente i risultati, evidenziando che le esperienze mistiche sono mediate da marcati cambiamenti nell’entità e nella coerenza della risposta, per effetto dell’attività di numerose aree corticali di entrambi gli emisferi (Beauregard Mario & Paquette Vincente, EEG activity in Carmelite Nuns during a mystical experience. Neuroscience Letters 444 (1), 1-4, 2008).

[27] In seguito si discuterà più approfonditamente questo punto.

[28] Anche in psicologia e in filosofia della mente l’annosa distinzione fra contenuto e coscienza costituisce un problema di non facile soluzione con il quale, per oltre quarant’anni, si è cimentata una folta schiera di studiosi che ha avuto in Daniel Dennet il suo capofila. Si veda: Daniel C. Dennet, Content and Consciousness, Routledge and Kegan Paul, Londra 1969 (testo originario, presentato come tesi di dottorato); la seconda edizione del 1986, totalmente riveduta, fu tradotta sei anni dopo: Contenuto e Coscienza. Il Mulino, Bologna 1992.

[29] Nella cultura occidentale è il luogo privilegiato dell’essere, nel quale la volontà del soggetto si assume la responsabilità delle scelte.

[30] Il termine, introdotto da Edouard Pichon, indica un interlocutore materialmente assente, ma al quale si rivolge pensiero e parola.

[31] La teologia del patto, nel cristianesimo, prosegue la tradizione ebraica del Vecchio Testamento che, nei dieci comandamenti, esprime i vincoli che legano la coscienza morale alla volontà di Dio.

[32] Il sacrificio di Abramo è un esempio paradigmatico della prova: chiedendogli di sacrificare il figlio unigenito Isacco, Dio saggia la fedeltà del patriarca spingendolo oltre il limite del tollerabile per l’uomo, ma costatata la sua fede, lo ferma e lo premia con benefici estesi alle generazioni successive. Questo episodio biblico esemplare, richiama alla mente una costante della cultura giudaico-cristiana: Dio chiama e l’uomo risponde; una scena che ha per teatro la coscienza e per protagonista la volontà.

[33] Come abbiamo visto in precedenza, gli studi di Davidson e colleghi presso la Wisconsin-Madison University hanno dimostrato che maggiore è l’esercizio della pratica buddista, più rilevante è la riduzione di attività cerebrale; ciò che corrisponde allo stato di “concentrazione senza sforzo” riferito dai praticanti, può riflettere l’apprendimento cerebrale ad indebolire con maggiore immediatezza ed efficacia la coscienza.

[34] Schematicamente possiamo distinguere la preghiera, con scopo di comunicazione, e la cerimonia con intento di commemorazione. Nel Padre Nostro, esempio paradigmatico della preghiera cristiana, il credente si rivolge ad un Allocutore invisibile e presente nella propria mente, legando, attraverso la propria coscienza, l’individuale all’universale. I riti cerimoniali collettivi, che includono la preghiera e prevedono numerose forme e procedure, hanno in comune la commemorazione, nel senso etimologico di rendere attuale alla coscienza.

[35] Ci rendiamo conto che si tratta di una distinzione semplicistica ed approssimativa, tuttavia la proponiamo perché ci sembra efficace nel cogliere i due aspetti salienti della differenza.

[36] Franz Joseph Gall, famoso anatomista del XIX secolo, pubblicò nel 1825 la sua teoria degli organi mentali, che chiamò Organologia; le sue tesi furono condivise da Johan Kasper Spurzheim, che ribattezzò questa localizzazione delle funzioni psichiche in presunti organi cerebrali, Frenologia. L’Organologia di Gall postulava la ripartizione del cervello in un grande numero di regioni, corrispondenti a veri e propri organi mentali, indipendenti fra loro e presenti fin dalla nascita. Ciascun organo costituiva la sede di quelle che la cultura del tempo riconosceva come tendenze, istinti e facoltà, quali l’istinto di riproduzione, l’amore per la propria progenie, il senso del linguaggio, la memoria per cose e fatti, la memoria per le persone, il gusto per le risse e i combattimenti, e così via; in tutto ventisette in una prima versione e trentacinque in una seconda. La frenologia giunse a ritenere che il particolare sviluppo di un organo cerebrale preposto ad un compito fosse ereditario e determinasse un’evidente deformazione cranica, da cui espressioni quali “ha il bernoccolo della matematica” o “è nato col bernoccolo del commercio”.

Il riferimento è tratto da “Alfred Binet e la Frenologia”, relazione di Giuseppe Perrella al seminario “Il senso dei numeri” (Società Nazionale di Neuroscienze BM&L, 2003).

[37] “You list a bunch of places in the brain as if naming something lets you understand it” in David Biello, Searching for God in the Brain., p. 44, Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[38] Si vuole riferirsi agli studi illustrati in precedenza.

[39] Beauregard riferisce che, in uno studio QEEG non ancora pubblicato, ha ricevuto sostanziali conferme di quanto riscontrato in precedenza nelle carmelitane in meditazione, rilevando onde delta e theta nelle stesse regioni prefrontali, parietali e temporali che costituivano lo schema fMRI della meditazione cattolica emersa nel suo studio precedente.

[40] Il proposito di Newberg non è di facile attuazione, soprattutto per quanto riguarda i musulmani, che si sono rivelati più restii degli ebrei a sottoporsi ad indagine scientifica durante le manifestazioni della loro fede.

[41] “Our only hope is to specify what is going on in each of those subsystems” in David Biello, Searching for God in the Brain., p. 44, Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[42] David Biello, Searching for God in the Brain., p. 45, Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.

[43] Sia nel senso cristiano della Grazia, intesa come anticipazione terrena dello stato di beatitudine, sia nel senso dello stato d’animo positivo e costante descritto con varie formule in altre religioni.

[44] David Biello, Searching for God in the Brain., p. 45, Scientific American MIND 18 (5), 38-45, 2007.