ZEN di Julius Evola



Julius Evola - La Dottrina del Risveglio - Cap. Fino allo Zen 



«Proprio in relazione a ciò, a chiudere la nostra esposizione, diremo qualcosa sul cosiddetto buddhismo zen. Lo Zen è una delle più importanti correnti, dalla Cina passata in Giappone, dove tuttora esiste, del buddhismo esoterico. Secondo la tradizione, esso avrebbe per base appunto una dottrina segreta trasmessa direttamente dal principe Siddharta al discepolo Mahakaçyapa. Custodita da una catena ininterrotta di maestri, al principio del sesto secolo d. C. essa venne trasportata in Cina da Bodhidharma, come lo stesso Buddha storico di stirpe guerriera e regale, terzo figlio di un potente re brahmano del sud-ovest dell'India. Dalla Cina, lo Zen passò in Giappone, dove mise profonde radici ed ebbe importanti sviluppi.

Come sostanza, si tratta di una diramazione dell'esoterismo mahayanico, che in alcune vedute del taoismo (specie nella dottrina del « vuoto» di Lao-tze) e in alcune disposizioni dell’animo cinese (soprattutto come sentimento della natura) trovò elementi congeniali, coi quali si integrò. 

Quanto al termine Zen, esso, in sé stesso, è l’abbreviazione del termine giapponese corrispondente al sanscrito dhyana e al pali jhana (la designazione cinese della scuola è Ch’an). Ma questo termine qui va preso in una accezione più vasta di quella, tecnica, da noi a suo luogo considerata: esprime in genere lo stato di una contemplazione sviluppantesi nel segno del “vuoto”.

Lo Zen non costituisce una “anomalia estremo-orientale” del buddhismo, come qualcuno ha preteso, ma, in fondo, proprio una ripresa dell’esigenza che dette vita al buddhismo delle origini di contro alla speculazione e al ritualismo brahmanico prebuddhista. Infatti, ad un certo momento, con mutati termini si era verificato nel buddhismo lo stesso fenomeno di sfaldamento, di formalizzazione scolastica e di sopravvivenza tradizionalistico-rituale, che ebbe luogo nell’India post-vèdica. Lo Zen ci si presenta come una reazione così energica contro tutto ciò, quanto al tempo suo lo fu quella propria al buddhismo delle origini.

Lo Zen non vuole saperne di speculazioni, di scritture canoniche, di riti o di divagazioni religiose. Ostenta una iconoclastia. Non disserta, come un Nagarjuna, sulla verità trascendente, ma vuole creare, per mezzo di un’azione diretta, le condizioni per realizzarla di fatto. [1] “Le scritture non sono nulla più che carta inutile” — dice Rin-zai, un maestro zen. Un altro ammonisce cosi una persona che stava bruciando i libri confuciani: “Avresti fatto meglio a bruciare i libri nella mente e nel cuore, non questi scritti in bianco e nero”. Testi, dogmi, precetti sono tanti vincoli o tante stampelle, da metter da parte per andare avanti da sé. La stessa letteratura canonica del buddhismo viene paragonata ad una vetrata dalla quale si contempla la grande scena della natura: ma per vivere in questa scena, bisogna saltar fuori dalla vetrata. Vi è anche la similitudine del dito e della luna: per indicare la posizione della luna è necessario un dito: guai però a coloro che scambiano il dito per la luna. 

Lo stesso devesi pensare in ordine alla realizzazione e al sapere trascendente. Come la natura ha orrore del vuoto — viene detto — cosi lo Zen aborre tutto ciò che può intromettersi fra la realtà e noi stessi. Si colgano, se se ne è capaci, le allusioni contenute nelle dottrine: ma ci si guardi bene dal vincolarsi alle parole e ai concetti. L’idea di una trasmissione speciale del vero sapere al di fuori dei testi è il caposaldo di una delle principali scuole dello Zen. Lo stato di un buddha può esser compreso soltanto da chi è lui stesso un buddha — vi si sostiene. Descriverlo con parole è assurdo; ciò sarebbe riuscito impossibile allo stesso figlio dei çàkya. In fatto di indipendenza interiore, si narra l’aneddoto di un maestro zen che in una mattinata gelida, per riscaldarsi, fa a pezzi una statua del Buddha divinificato e la mette al fuoco, dicendo, a chi ne inorridiva: “Il Buddha avrebbe offerto non il legno della sua statua ma la sua stessa vita per aiutare un altro”. Il Buddha, colui che ha insegnato a recidere ogni vincolo e a tenersi su senza appoggi, non deve trasformarsi lui stesso in un vincolo e in un appoggio. Un detto paradossale di Rinzai è: “Se sulla vostra via incontrate il Buddha, uccidetelo! O voi, discepoli della verità, cercate di liberarvi da ogni oggetto! O voi, dagli occhi di talpa, io vi dico: niente Buddha, niente insegnamento, niente discipline!”. 

In ordine, poi, al limite che separa la visione da tutto ciò che è espressione discorsiva e in ordine alla conseguente necessità di un atto partente dall’interno, nello Zen si trovano esempi drastici. Un discepolo che chiedeva al maestro di rivelargli alfine il principio fondamentale della dottrina buddhista, viene mandato da un altro maestro. La domanda viene ripetuta e la risposta è uno schiaffo. Riferita la cosa al primo maestro, il discepolo viene di nuovo inviato al secondo. Domanda la stessa cosa e la risposta non è diversa: uno schiaffo. È inviato una terza volta. Questa volta il discepolo, non appena al cospetto del maestro, è lui che, senza far parola, dà all'altro un un ceffone. Il maestro allora gli dice, sorridendo: “Hai capito” [2].

Ad un principe, che con lui discuteva, un altro maestro zen dice: “Noi non domandiamo nulla né al Buddha, né alla legge, né all’Ordine”. Il principe, allora: “Se non chiedete nulla al Buddha, alla legge e all’Ordine, che scopo ha il vostro culto? ». Anche qui, la semplice risposta è uno schiaffo. Spesso si ha l’equivalente proprio della spinta brutale data a chi dorme profondamente, o fantastica, per risvegliarlo, per fargli aprire finalmente gli occhi. I testi zen sono ricchi di aneddoti, dove si vede che l’impulso a sapere intellettualisticamente viene stroncato da una risposta assolutamente fuori tono o da una azione brusca del maestro, risposta o azione che, tuttavia, in un animo maturo, vanno ad agire talvolta come una operazione di cataratta.

Porre bruscamente dinanzi ad uno spazio vuoto in cui si deve saltare, lasciando indietro tutto: sé stesso, la propria mentalità, le teorie, la stessa preoccupazione della liberazione. Sullo stesso piano sta l'uso dei cosiddetti koan: sono formule la cui assurdità porta chi è tenuto a meditarle alla disperazione finché avviene una rottura, una improvvisa illuminazione superrazionale. E ancora: un uomo, desiderando di esser introdotto nella conoscenza, batte alla porta di un convento zen. Come tutta risposta, il portone viene chiuso così brutalmente da spezzargli un braccio. In quell'attimo balena a quell’uomo l‘Illuminazione.

- “Quale è il sacro tempio del Buddha?” domanda un altro. Risposta del maestro zen: “Una fanciulla innocente”. “Quale è il vero corpo del Buddha Vairocana?”. Il maestro dice : “Prendetemi un vaso d’acqua”. Il discepolo esegue. Il maestro soggiunge: “Riportatelo al posto di prima”. E questo è tutto. Una assemblea era stata convocata per un discorso, atteso da molto tempo, sull’essenza della dottrina. Il maestro infine si presenta e, senza parlare, allarga le braccia.

Ciò può già condurre ad un altro motivo speciale dello Zen: “la lingua dell’inanimato”. Sono di Seigen-Ishin queste parole. “Prima che un uomo studi lo Zen, per lui i monti sono monti e le acque sono acque. Quando, grazie agli insegnamenti di un maestro qualificato, egli ha avuto la visione interiore della verità dello Zen, per lui le montagne non sono più montagne e le acque non sono più acque. Ma, dopo, quando egli raggiunge realmente lo stato di calma, di nuovo le montagne sono per lui montagne e le acque, acque”. La seconda fase corrisponde visibilmente al nirvana che ha di fronte a sé il samsara; la terza, al nirvana assoluto che non lascia residuò. Il “ritorno” deve interpretarsi alla stregua di quella esperienza liberata ove ogni dualismo è risolto, di cui si è detto a proposito della dottrina mahayanica del “vuoto” e della tathatâ. 

Nello Zen si tende peraltro, a che la stessa natura suggerisca questa esperienza disindividualizzata e liberata, tanto da propiziare attimi di illuminazione epperò il senso di quel mutamento di stato nel quale consiste l’essenza della via. L’animo deve giungere a sentire che ogni cosa si manifesta e si rivela secondo una perfezione assoluta e senza simili: solo allora si presentirà anche quel nirvana che non lascia nulla dietro di sé e fuori di sé, cosa corrispondente ai monti che sono nuovamente monti e alle acque che sono nuovamente acque.

Una similitudine, a questo riguardo, è assai espressiva: “L’ombra segue il corpo, l’eco sorge dalla voce. Chi, inseguendo l’ombra stanca il corpo non sa che è il corpo che produce l’ombra; e chi alza la voce per soffocare un eco, non sa che la voce è la causa dell’eco”. Viene anche detto : “Il soggetto consegue la calma quando l’oggetto viene meno; l’oggetto viene meno, quando il soggetto consegue la calma”. Già Lao-tze aveva insegnato: “Lasciare per prendere”. Lo Zen ripete : “Lascia la presa, lascia che le cose siano come sono”. Si tratta di creare uno stato di identità assoluta con sé stessi, priva di segni, priva di intenzioni.

Così nello Zen, sulla traccia del taoismo, si parla dell’azione che consiste in uno non-sforzo o in una non-intenzione — anabhoga-carya — e di una risoluzione corrispondente, simile ad un “voto” — anabhoga-pranidhana. È anche detto: “Come due specchi senza macchia si riflettono l’uno nell’altro, del pari il fatto concreto e lo spirito debbono stare l’uno di fronte all’altro senza che fra di essi si frapponga nulla di estraneo”. Si tratta, ancora una volta, della catarsi dalla soggettività, della distruzione della “psicologia”, cui già mirava lo yatha-bhùtam del buddhismo delle origini, la visione trasparente conforme a realtà. È a tale stregua che la natura, nella sua libertà e impersonalità, nella sua estraneità a tutto ciò che è soggettivo ed affettivo, può far presentire lo stato di illuminazione.

Ecco perché lo Zen dice che la dottrina, più che nei testi del canone, si trova racchiusa in fatti semplici e naturali, e che l'universo è la vera scrittura dello Zen e il corpo del tathagata. “Alberi, erba, monti, correnti, astri, mare, luna — con questo alfabeto sono scritti i testi zen”. “Può l’inanimato predicare la dottrina?”. Hui-chung risponde: “Sì, essa predica con parole eloquenti e senza cessa”. “Tutto è vuoto, lucido, e porta in sé un principio illuminante”. Sorge il Sole. Scende la luna. Altezza di monti. Profondità di mare. Fiori di primavera. Fresca brezza d'estate. Autunno dalla vasta luna. Fiocchi di neve invernale. “Queste cose, forse troppo semplici a che un comune osservatore vi presti attenzione, hanno per lo Zen un significato profondo”. “Che cosa è la verità? “ chiede un discepolo. Come risposta, il maestro Yo-shan indica il cielo col dito, poi una brocca d'acqua e dice: “Vedete?”. L’altro risponde : “No”. Yo-shan replica. “La nube è nel cielo e l’acqua nella brocca” e questo è tutto. Tiing shan dice: “Come è meravigliosa la lingua dell’inanimato. Voi non potete udirla con le orecchie ma potete udirla con gli occhi”. Udire con l’occhio della mente, non con la percezione, non con la logica, non con la metafisica.

Un altro detto zen “Le foglie che cadono, al pari dei fiori che si dischiudono, ci rivelano la santa legge del Buddha”. Ci si deve solo guardare dal confondere tutto ciò con un estetismo lirico sui generis. Il sentimento estremo-orientale della natura, semplificato, particolarmente trasparente, qui ha, come si è detto, la sua parte. Ma il punto fondamentale è di risalire, dalla natura libera d'anima che è solo sé stessa, pura da affetti e dalla soggettività, allo sguardo, appunto, pel quale “i monti sono di nuovo monti e acque le acque”. Una formula zen, che in un certo modo ne compendia la dottrina, è: “Riflettere in sé stessi e riconoscere il proprio volto quale era prima del mondo” (Huei-neng). 

In connessione col messaggio dell’inanimato sta uno stile, nel quale il segno, il gesto, il simbolo prendono il posto della parola. Si è già detto del maestro zen che, dinanzi all’assemblea dei monaci raccolti per udire il suo discorso sulla dottrina, si limita ad aprire le braccia. Un altro leva semplicemente il dito in alto. Un altro presenta un bastone. Si vuole che Mahakaçyapa fosse stato prescelto dal Buddha per la trasmissione della dottrina esoterica in questa circostanza: il Buddha aveva, dinanzi ai suoi discepoli, levato in alto un mazzo di fiori; solo fra tutti Mahakaçyapa sorride ed inchina la testa, assentendo. Le parole limitano. Invece un segno può propiziare, in un momento adatto, attimi di illuminazione.

Dati questi antecedenti, si può capire che lo Zen insista soprattutto su quel risveglio spirituale, o interiore mutamento di stato, che ha un carattere brusco, discontinuo. Satori, cioè l’apertura del terzo occhio, l’illuminazione, è per esso una condizione che interviene subitamente, distruggendo ogni antecedente, ponendosi come privo di origine, privo di “divenire”. Si riprende, nello Zen, Il motivo del Vajaracchedika: il tathagata è chiamato cosi, perché non viene da nessuna parte e non va in nessuna parte. “Nel suo apparire non viene da nessuna parte e nel suo scomparire non va in nessuna parte — e questo è lo Zen”. E ancora: “Dove vi è realmente un entrare o un uscire, non si ha la grande contemplazione. Lo zen (lo stato contemplativo, lo stato di illuminazione-risveglio), è nella sua essenza senza nascita”. Infine: “Cercare la Via significa uscire dalla Via”.

Ciò non pertanto nello Zen si sono differenziate, ad un dato momento, due scuole, quella del Sud — yuga-pad — che insiste maggiormente appunto sulla discontinuità del risveglio; quella del, Nord — krama-vrittya - che invece ammette una certa gradualità. Ma, secondo l’una come secondo l’altra, è essenziale ad un dato momento saper “saltar fuori dall’Io”, saper “vomitar fuori l’Io”. Ciò può esser propiziato anche da sensazioni violente, perfino da un dolore fisico, da qualcosa che, come secondo un detto cinese, "faccia torcere le viscere nove volte e ancor più". Si è già riferito l’episodio del braccio spezzato. Non è il solo. In certi ambienti sembra tuttora praticata una operazione simile allo strangolamento, con la quale il discepolo, opportunamente preparato, viene spinto dinanzi ad un vuoto, nel quale egli deve saltare. In tema di preparazione, gli indirizzi dello Zen non differiscono essenzialmente da quanto si è già esposto come ascesi ariya. 

Primo punto. Rendersi signori degli oggetti esterni, sostituendo una condizione di attività a quella, abituale, di passività. Rendersi conto, che dovunque un desiderio spinga un uomo verso una cosa, non è lui ad avere la cosa, ma è la cosa che ha lui. “Chi ama un liquore, crede di bere, mentre è il liquore che beve lui”. Distaccarsi. Scoprire ed amare il principio attivo in sé.

Secondo punto. Padroneggiamento del corpo. Affermare la propria autorità sull’intero organismo. “Immaginare il corpo come da voi staccato: se grida, fatelo tacere come un padre severo fa col suo bambino. Se fa capricci, riprendetelo, come si fa con un cavallo tenuto al morso. Se è malato, somministrategli quel che è adatto, come fa un medico col paziente. Se disobbedisce, castigatelo come il maestro castiga l’allievo turbolento”. Temprarsi fisicamente. Ingaggiare con sé stessi una “gara di perseveranza”, abituandosi per es. a sopportare in inverno un freddo gelido e in estate un caldo torrido. E cosi via.

Terzo punto. Controllo della vita mentale ed emotiva, per determinare e consolidare uno stato d’equilibrio. Non manca l’appello alla razza interiore. È ridicolo — si dice nello Zen — che un essere dotato della natura di un buddha, nato per farsi signore di ogni realtà materiale, sia preso da piccole cure, si impaurisca per fantasmi da lui stesso creati, si lasci alterare l’animo dalle passioni, dissipi la sua energia vitale in cose irrilevanti. Ansie, recriminazioni o nostalgie del passato, immaginazioni o anticipazioni del futuro, inimicizie, vergogna, turbamento, tutto ciò sia messo da parte. Ci si aiuti, eventualmente, con la teoria “irrealistica” utile per far realizzare l’irrazionalità di tanti moti d’animo e per ridurre in proprio dominio il cuore.

In più, semplificarsi, recidere risolutamente la vegetazione parassitaria dei pensieri vani e confusi. Alla domanda: “Come imparerò la legge?” un maestro, Poh Chang, rispose: “Mangiate quando avete fame e riposate quando siete stanco”. La calma, l’equilibrio — il samatha, di cui si è ripetutamente detto — deve divenire un abito. Un aneddoto: comandando un esercito in guerra, O-yo-mei anche nel suo quartier generale trattava delle dottrine zen. All’annuncio che le sue truppe avanzate sono state sconfitte, egli continua calmo il suo discorso. Poco dopo, egli riceve la notizia, che nel suo ulteriore sviluppo la battaglia si è invece conclusa con una vittoria. Il capo resta calmo come prima e nemmeno allora cambia il discorso. È la via per presentire, a poco a poco, un principio che può venire così poco alterato dal dubbio o dalla paura, quanto la luce solare può esser distrutta dalla nebbia o dalle nubi.

Quarto punto: il “gettar fuori il mentale” o ”l’Io”, di cui si è già detto. È qui che, di là da ogni preparazione, si ha una discontinuità, trattandosi di un vero e proprio cambiamento di stato. Così si può dire: “Il satori sopravviene all'improvviso, quando avete esaurito tutte le risorse del vostro essere”. A chi si meraviglia del detto, che il mondo rientra nello spirito, un maestro zen replica dicendo che la difficoltà consiste piuttosto nel far entrare lo spirito nel mondo. Si tratta di quella rottura dell’involucro costituito dal mentale, di cui è detto in un testo mahayanico già riportato; solamente allora si avrà l’intuizione che il nirvana, inteso come termine di una opposizione, è esso stesso una illusione, un vincolo, l’oggetto di un sapere imperfetto.

Lo Zen usa un doppio simbolismo per l'insieme della disciplina: quello dei “cinque gradi del merito” e quello delle vicende dell'uomo e del toro (o della vacca selvaggia).
Il “primo grado del merito” corrisponde al “voltarsi” — analogo a pabbajja, alla “partenza” dell’antico insegnamento buddhista: l’uomo si sottrae al mondo esterno e si volge verso quello interno. L’Io illuminato, estrasamsarico, viene qui raffigurato come un re, del quale ci si dichiara sudditi e gregari.
Secondo grado del merito: “servizio” — cioè fedeltà e lealismo rispetto a questo sovrano interiore.
Terzo grado: “valore “, quello che si deve dimostrare affrontando e combattendo tutto ciò che si rivolta contro il re.
Viene poi il “merito di chi coopera”, spettante a colui che non è semplicemente adibito alla difesa e al combattimento ma è ammesso al governo positivo dello Stato.
Ultimo grado del merito: il “di là dal merito” o “merito che non è merito” (espressione da intendersi nello stesso senso dell’ “agire senza agire”) — è il rango stesso del re, del quale si assume la natura. Qui l’azione cessa o, se si preferisce, l’azione si manifesta nella forma di non azione, di spontaneità. L’essere e la legge fanno tutt’uno. Ovvero: non c’è più legge. Qui si potrebbe forse vedere il giusto luogo dell'accennata, pericolosa verità esoterica, che cercare la liberazione è una mania, perché non vi è tempo in cui si sia stati vincolati.

Ed ora al secondo simbolismo zen, compreso in dieci note illustrazioni corrispondenti a dieci momenti delle vicende di un mandriano e di un toro. Il Sé — ciò che nella precedente allegoria viene raffigurato come il re, ossia l'elemento “illuminazione”, bodhi — viene concepito sotto le specie di una pietra preziosa sempre chiara e sempre pura, anche quando è sepolta nella polvere. Bisogna ritrovarla. Il mandriano cerca il toro.
La prima figura è appunto la ricerca incerta.
La seconda è la speranza: l’animale non è stato ancora visto, ma se ne scorgono già le tracce.
Terzo: si vede da lontano il toro e si avanza cautamente verso di esso.
Quarto: il toro viene subitamente afferrato ed esso cerca invano di liberarsi.
Quinto: l’animale viene diselvatichito, domato e nutrito, tanto che alla fine segue il mandriano, quasi che fosse la sua ombra.
Sesto: dallo stesso animale, che gli fa da cavalcatura, il mandriano è ricondotto a casa.
Settimo: “il dimenticarsi dell’animale e il ricordarsi dell’uomo”.
Ottavo: “il dimenticarsi sia del toro, sia dell’uomo” — la figura corrispondente reca soltanto un grande circolo vuoto: siamo al punto del superamento di ogni dualismo nel “vuoto “, nella coscienza liberata.
Nono: ritorno alle origini e alla sorgente — si ricordi il detto zen: “ritrovare il proprio volto quale era prima del mondo”.
Ultima figura: andare in città con le mani aperte, fase, da ravvicinare a quella nella quale, di nuovo, “i monti sono monti e acque le acque”. È il punto, in cui la trascendenza si fa la chiarità di una immanenza assoluta, nel segno più della libertà che non della liberazione.

I maestri zen insegnano, che l’Ordine santo degli ariya antichi, seduti intorno al principe Siddharta, è tuttora raccolto presso al Picco dell'Avvoltoio, cioè nel luogo simbolico ove, nei testi mahayanici, si fa prevalentemente parlare lo Svegliato, e che riproduce l’idea tradizionale del centro supremo e occulto del mondo». [3]

[1] l dati e le citazioni di testi, in ciò che segue sono stati tratti da KAITEN NUKARIYA The religion of the Samurai, London, 1913 e D. T. SUZUKI, Essays in Zen Buddhism London2 1950; Living by Zen, London, 1950; Manual of Zen Buddhism, London, 1951; The Zen doctrine of no-mind, London, 1952. Cfr. anche le applicazioni psicologiche tentate da L. BENOIT, La doctrine supréme, Paris, 1952 - e inoltre: Passe sans porte (Wu-men-koan), Paris, 1963. 

[2] L’aneddoto vuol sottolineare la necessità di ciò che nello Zen viene chiamato jiriki (opposto a turibi), ossia “atto proprio”, propria iniziativa partente dall’interno. Sul piano profano, vi è una curiosa corrispondenza con un breve racconto di C. BAUDELAIRE (Le spleen de Paris, XLIX): il protagonista percuote un mendicante miserabile e implorante finché questi ricambia; allora gli dice: “Signore, siete uguale a me, vogliate farmi l’onore di dividere la mia borsa e ricordatevi, se siete veramente filantropo, che bisogna applicare a tutti i vostri confratelli, quando vi chiederanno l’elemosina, la teoria che io ho avuto il ‘dolore’ di provare sulle vostre spalle”. 

[3] J. Evola, La Dottrina del Risveglio, Cap. Fino allo Zen, Vanni Scheiwiller 1973, Terza Ed., pp. 283-291