domenica 21 settembre 2014

La meditazione in medicina



di 
http://www.scienze-naturali.it/medicina-salute/salute/la-meditazione-in-medicina


  Quante volte abbiamo pensato che se avessimo “Meditato”qualche minuto in più in una situazione difficile o di fronte ad un problema apparentemente irrisolvibile forse avremmo avuto molte possibilità alternative di risoluzione, una maggiore chiarezza, una visione completa di dettagli utili altrimenti sfuggenti ad una prima frettolosa analisi. Certamente molto spesso. 

 Numerosi studi pubblicati e recentemente riassunti in editoriale della rivista Jama, pubblicata da medici americani, documentano senza ombra di dubbio, l’efficacia delle tecniche Antistress e Meditative. Patologie come l’ipertensione, l’ischemia del miocardio, il dolore cronico, la malattia infiammatoria intestinale, infezioni, dipendenze da droga e da cibo, rappresentano perfetti esempi dell’importanza della necessità di possedere una mente serena ed equilibrata non funestata da ricorrenti cicli di pensiero e componenti emotive virate al negativo ed alla chiusura esistenziale. Oltre alle tecniche generali e specifiche di rilassamento e relazione quella che più ha destato l’interesse dei ricercatori è rappresentato però dal valore aggiunto della Meditazione che affiancata alle terapie standard ha evidenziato nei pazienti un netto miglioramento, superiore alla norma, in riferimento ai risultati. 

  La recente ricerca sistematica del gruppo di E. Ernst ha dimostrato pertanto che in persone con sindromi depressive a carattere ricorrente, nell’ansia cronica, la meditazione abbinata alla normale psicoterapia e psicofarmacologia, favorisce in modo straordinario il recupero nei due terzi dei pazienti, superando trattamenti negli standard tradizionali. In Italia interessanti esperienze al riguardo dimostrano che al termine di un corso base della prassi meditativa si verificano rilevanti diminuzioni delle sintomatologie a sfondo depressivo, ansioso oltre che nelle somatizzazioni, nei sensi di inadeguatezza personale/relazionale. 

  Il Symptom Rating Test è un questionario sintomatologico validato fin dal 1974, contenente quattro scale per valutare AnsiaDepressioneSomatizzazione - Inadeguatezza. La esperienza comune mostra come le persone avvezze alla preghiera e a rivendicare spazi di silenzio, riflessione, ritagliando per se tempi di rilassamento, sono più calme, serene, tranquille, predisposte all’ottimismo nei confronti della vita, degli eventi, degli accadimenti. Ancora un ringraziamento davvero meritato deve essere tributato al Congresso della Società Italiana di Psico_Neuro_Endocrino_Immunologia (SIPNEI) con la Presidenza Onoraria della Società Scientifica di Francesco Bottaccioli in sinergia operativa perfetta con Antonia Carosella, insegnante di tecniche meditative e delle Psicoterapeute Raffaella Cardone, Monica Mambelli, Marisa Cemin, Psicologa specialista in statistica che ha raccolto ed esaminato più di settanta persone indirizzate ai corsi di “Meditazione Indirizzo Pnei”. I risultati? Il Symptom Rating Test, strumento scientifico validato e di valutazione dei cambiamento espressi a livello sintomatologico, ha mostrato che all’inizio del corso e percorso meditativo, il punteggio totale della sintomatologia era di 18,9. Il Re-test finale fine corso ha fatto registrare il punteggio di 5,8. Una riduzione dei sintomi superiore quindi tre volte rispetto all’inizio del corso. 

  Dovremmo forse allora appunto "Meditare" su questi notevoli, naturali risultati ottenuti peraltro in perfetta assonanza con una ritrovata possibilità di poterci riappropriare di un giusto scorrere del tempo della nostra esistenza. Quindi, quando possibile anche in campo medico, meglio “Meditare”… 

Dott. FKT Francesco Alessandro Squillino
Master Biennale in Globalità dei Linguaggi c/o Univ.tà di Tor Vergata Roma 

mercoledì 10 settembre 2014

La meditazione studiata dai neurologi



Un intervento del XIV Dalai Lama a Washington, tradotto in un articolo di La Repubblica (14 Novembre 2005).

(Traduzione di Anna Bissanti)
(copyright 2005 The New York Times)
http://guide.supereva.it/filosofie_orientali/interventi/2005/11/234396.shtml 

  La scienza mi ha sempre affascinato: da bambino, in Tibet, ero estremamente desideroso di conoscere in che modo funzionassero le cose. Quando ricevevo un giocattolo, ci giocavo per un po’, poi lo aprivo per vedere come era stato costruito. Una volta cresciuto, applicai lo stesso metodo di indagine a un proiettore cinematografico e a un’automobile antica. 

  Ad un certo punto rimasi particolarmente affascinato da un vecchio telescopio, con il quale mi misi a studiare i cieli, e una notte, mentre osservavo la Luna, mi accorsi che sulla sua superficie vi erano delle ombre. Convocai i miei due precettori perché vedessero con i loro stessi occhi, perché quello che si vedeva nel mio telescopio contrastava con l’antica teoria cosmologica che mi era stata insegnata e che sosteneva che la Luna era un corpo celeste ed emetteva una sua propria luce. Attraverso le lenti del mio telescopio, invece, era evidente che la Luna era manifestamente rocciosa, nuda, costellata di crateri. 

  Se l’autore del trattato del quarto secolo che avevo studiato avesse dovuto scriverlo oggi, sono sicuro che avrebbe scritto in modo completamente diverso il capitolo sulla cosmologia. Qualora la scienza dimostrasse che qualche principio del buddismo è sbagliato, allora il buddismo dovrebbe cambiare. Dal mio punto di vista, infatti, scienza e buddismo condividono una medesima ricerca della verità e comprensione della realtà. Io credo che apprendendo dalla scienza alcuni aspetti della realtà, la comprensione dei quali può essere più avanzata, il buddismo arricchisca la propria ottica e visione del mondo. 

  Da molti anni ormai, per conto mio e tramite il Mind and Life Institute, alla fondazione del quale ho collaborato, ho l’opportunità di incontrare vari scienziati per discutere con loro delle loro ricerche. 

  Scienziati di levatura mondiale mi hanno impartito insegnamenti in fisica subatomica, in cosmologia, psicologia e biologia. Sono state le nostre chiacchierate sulle neuroscienze, tuttavia, a rivelarsi particolarmente importanti. Da quegli scambi di punti di vista è nata infatti una valida iniziativa di ricerca, una vera e propria collaborazione tra monaci e neurologi, volta a indagare in che modo la meditazione possa influire sulle funzioni cerebrali

  Lo scopo non è quello di appurare se il buddismo ha torto o ragione – né tanto meno di attirare nuovi adepti al buddismo – bensì quello di estrapolare dal loro ambito tradizionale queste tecniche, studiandone i benefici potenziali e mettendo in comune le eventuali scoperte con chiunque possa reputarle utili. Dopo tutto, se le pratiche che risalgono alla tradizione cui io appartengo potessero essere associate ai metodi scientifici, allora potremmo forse essere in grado di compiere un ulteriore piccolo passo avanti per alleviare le sofferenze umane

 Questa collaborazione ha già dato i suoi frutti. Richard Davidson, un neurologo dell’Università del Wisconsin, ha pubblicato i risultati di alcuni studi effettuati sul cervello di alcuni lama in meditazione per mezzo di tecnologie di imaging e di scansione. Egli ha scoperto che durante la meditazione alcune aree cerebrali che si ritiene siano da mettere in relazione alla sensazione di felicità aumentano la loro attività e ha altresì scoperto che quanto più a lungo una persona si è dedicata alla meditazione, tanto più intensa è l’attività che interessa quelle aree. 

 Sono in corso altri studi di questo tipo: all’Università di Princeton, Jonathan Cohen, neurologo, sta studiando gli effetti della meditazione sulla concentrazione. Alla facoltà di medicina dell’Università della California a San Francisco, Margaret Kemeny sta invece studiando in che modo la meditazione contribuisce a sviluppare negli insegnanti di scuola l’empatia. Quali che siano i risultati di queste ricerche, sono confortato che stiano avendo luogo: vedete, molta gente ritiene che scienza e religione sono in opposizione tra loro. 

  Sebbene io condivida il fatto che alcuni concetti religiosi sono in conflitto con fatti e principi scientifici, ritengo però altresì che è possibile per ricercatori ed esponenti religiosi, rappresentanti di questi due mondi, intavolare un dibattito intelligente, che abbia in ultima analisi il potere di generare una più profonda comprensione delle sfide cui dovremo far fronte insieme nel nostro mondo interdipendente. 

  Uno dei miei primi insegnanti di scienze è stato il fisico tedesco Carl von Weizsaecker, a sua volta alunno del teorico dei quanti Werner Heisenberg. Weizsaecker è stato così gentile da impartirmi alcune lezioni specifiche su complessi argomenti scientifici. Ciò che mi colpì maggiormente fu il modo che aveva Weizsaecker di avere a cuore sia le implicazioni filosofiche della fisica dei quanti, sia le conseguenze etiche della scienza in generale. Egli avvertiva che la scienza può trarre grande beneficio indagando questioni solitamente considerate di pertinenza delle discipline umanistiche. 

  Io credo che noi dobbiamo trovare il modo di far sì che le considerazioni etiche abbiano la loro influenza sulla direzione che deve prendere il progresso scientifico, specialmente le scienze naturali

  Facendo appello a principi etici fondamentali non intendo promuovere una fusione di etica religiosa e indagine scientifica. Intendo piuttosto riferirmi a quella che io definisco “etica laica”, che abbraccia i principi che noi condividiamo in quanto esseri umani: compassione, tolleranza, rispetto per gli altri, uso responsabile del potere e del sapere. Questi principi trascendono le barriere che si frappongono tra chi crede e chi non crede in una religione: si tratta di principi che non appartengono a un’unica fede, ma a tutte. 

 Oggi le nostre conoscenze sul cervello umano e sul nostro corpo a livello genetico e molecolare hanno raggiunto nuovi gradi di perfezione: i progressi nella manipolazione genetica, per esempio, fanno sì che gli scienziati possano creare nuove entità generiche – specie ibride tra animali e piante, per esempio – le cui conseguenze a lungo termine si ignorano. 

  Talvolta, allorché gli scienziati si concentrano sui loro rispettivi e ristretti ambiti, la loro messa a fuoco può mettere in ombra il più vasto impatto che il loro lavoro potrebbe avere. Parlando con loro, ho dunque cercato di ricordare agli scienziati qual è l’ambizioso scopo insito in tutto ciò che fanno nel lavoro di tutti i giorni. 

  Ciò è quanto mai importante: è fin troppo chiaro, infatti, che il nostro pensiero morale semplicemente non è riuscito a rimanere al passo con la velocità dei progressi scientifici. Eppure, le implicazioni di questi progressi sono tali che non è più appropriato affermare che si dovrebbe lasciare ai singoli la scelta di decidere che cosa fare di tale sapere. Questo è un punto su cui intendo soffermarmi quando, sabato prossimo, parlerò al meeting annuale della Società di Neuroscienze a Washington. Dirò dunque che non è soltanto di interesse precipuo degli accademici decidere in che modo la scienza si rapporti all’umanità nel suo complesso. 

  Questa questione deve essere considerata per quello che è, di indifferibile importanza per tutti coloro che hanno a cuore il destino degli esseri umani. Un più approfondito dialogo tra neuroscienza e società – anzi, tra tutti gli ambiti scientifici e la società – può contribuire ad approfondire la nostra comprensione di ciò che significa essere uomini e quali debbano essere le nostre responsabilità nei confronti del mondo naturale che condividiamo con gli altri esseri senzienti. 

  Come il mondo degli affari sta prestando crescente attenzione all’etica, così anche il mondo della scienza potrebbe trarre beneficio da una più approfondita considerazione di quali sono le implicazioni del suo lavoro. Gli scienziati dovrebbero essere qualcosa di più che meramente competenti in ambito tecnico. Dovrebbero essere memori delle loro motivazioni e del fine ultimo di tutto ciò che essi fanno: il miglioramento dell’umanità

martedì 2 settembre 2014

Come sviluppare il cervello con la meditazione


a cura di Rosalba Miceli


  Fin dove può giungere la mente umana nel cercare di migliorare la capacità di prestare attenzione alle emozioni e di gestirle, di generare stati d’animo più positivi, di entrare in sintonia con gli altri o di avere un atteggiamento amorevole e compassionevole nei loro confronti? Al Mind and Life Institute (Hadley, Massachusetts, USA), una associazione no-profit di studiosi interessati alle neuroscienze, quali lo psicologo, scrittore e giornalista scientifico Daniel Goleman, e Richard Davidson, neuroscienziato e psicologo, docente all’Università del Wisconsin (pioniere della cosiddetta «neuroscienza affettiva»), e membri di gruppi dediti alle pratiche meditative, tra cui il Dalai Lama, si cerca di comprendere quali siano i limiti superiori della plasticità cerebrale.  

  Un promettente campo di ricerca nell’ambito della neuroscienza contemplativa analizza il rapporto individuale tra l’attività delle aree della corteccia prefrontale destra (un’area che si attiva quando siamo sofferenti, depressi o infelici) e l’attività della corteccia prefrontale sinistra (più attiva nell’emotività positiva, quando ci sentiamo entusiasti e carichi di energie mentali). Ogni individuo presenta un particolare rapporto di attivazione destro-sinistro a riposo che può predire in modo abbastanza preciso la gamma del suo umore giorno per giorno. 

  Una interessante conversazione tra Daniel Goleman e Richard Davidson sullo studio ancora in corso all’Università del Wisconsin sulle persone che praticano la meditazione da molto tempo (osservando le variazioni dell’attività cerebrale mediante l’utilizzo dell’apparecchiatura per la risonanza magnetica) è riportata con il titolo “Allenare il cervello: la promozione delle abilità emozionali” nel saggio Intelligenza sociale ed emotiva. Nell’educazione e nel lavoro (a cura di Daniel Goleman, Edizioni Erickson, 2014). «Che genere di cose si osserva in questo particolare gruppo di persone?», chiede Goleman. «...Quando chiediamo di farlo a persone che hanno imparato a meditare da poco, riscontriamo a malapena delle differenze tra i periodi in cui diciamo di meditare e quelli in cui diciamo di non meditare - risponde Davidson -. La cosa più sorprendente di coloro che invece sono abituati a meditare da molto tempo è che si osserva una grossa differenza nella loro attività cerebrale nei due periodi. Nel giro di sessanta secondi cambia così, istantaneamente. E, se tu li osservi dal punto di vista comportale, cioè se ti limiti a guardarli, non vedi alcuna differenza; non si muovono, sono completamente immobili, e quindi, benchè non ci sia una differenza osservabile nel loro comportamento, riescono a modificare il loro cervello in modo straordinario». 

  Il gruppo di ricerca diretto da Davidson ha studiato diverse pratiche specifiche. Non tutte hanno lo stesso tipo di effetto a livello cerebrale. In particolare sono state osservate le persone abituate a meditare da molto tempo che praticavano la forma di meditazione basata in modo consapevole su un atteggiamento compassionevole verso la propria e altrui sofferenza. É una pratica meditativa che trova il fulcro nel messaggio del Dalai Lama al mondo. Secondo il Dalai Lama, essere auto-compassionevoli non differisce in alcuna maniera dall’essere compassionevoli nei confronti degli altri. Le due cose si rivelano piuttosto due manifestazioni differenti della medesima comprensione che deriva dal riconoscere le caratteristiche umane condivise tra noi e gli altri, unitamente all’intenzione di essere più accoglienti e meno giudicanti riguardo la fragilità umana propria e altrui. Quando la compassione è sperimentata e compresa intimamente, si associa ad una visione profonda, ad un sentimento di calore, gentilezza e cura per gli verso altri e al desiderio che le loro sofferenze possano cessare. 

  Mentre tali soggetti stavano meditando e si trovavano in uno stato mentale di compassione, venivano esposti bruscamente ad un segnale di sofferenza, ad esempio, le urla di una donna in preda all’angoscia. «Abbiamo scoperto quindi che, in effetti, la meditazione basata sulla compassione è in grado di mobilitare l’insula e accentuarne l’attività - il che potrebbe essere un elemento fondamentale nel riconoscimento della sofferenza altrui e, cosa ancora più importante, nella motivazione a intervenire in presenza di sofferenza», spiega Davidson. L’insula è una zona del cervello che possiede una mappa dei diversi organi viscerali presenti nel corpo umano; l’insula comunica con altre aree cerebrali come la corteccia prefrontale; grazie a queste connessioni possiamo divenire coscienti delle sensazioni che possono prodursi quando proviamo una certa emozione e verosimilmente, sperimentare lo stesso stato corporeo della persona con cui si sta empatizzando in un dato momento. 

  «Tra l’altro - continua Davidson -, a proposito dell’intervenire in presenza di sofferenza, un’altra cosa importantissima che abbiamo osservato, e che inizialmente ci ha colti del tutto di sorpresa, è che durante la meditazione basata sulla compassione si attivano certi sistemi cerebrali associati all’azione... quindi, benchè questi soggetti non si muovano affatto, non siano impegnati in un’azione motoria, questi sistemi, per dirla con il linguaggio della psicologia, sono “preparati”, è ciò che intendiamo con questo è che la loro sensibilità è acuita, cosicchè quando ci si imbatte nella sofferenza nel mondo reale, quando queste persone non sono impegnate nella loro pratica di meditazione formale, hanno maggiori probabilità di mettere in atto un comportamento di aiuto per contribuire ad alleviare la sofferenza». 

 Il gruppo di ricerca ha studiato anche un altro tipo di meditazione che richiede di concentrare l’attenzione, creando uno stato attentivo della mente sull’esperienza che il soggetto sta vivendo in quel preciso momento. Gli studi sono stati condotti sia su soggetti abituati a praticare questo tipo di meditazione da moltissimo tempo, sia su persone mediamente esperte e poco esperte, che in certi casi hanno meditato per due mesi o anche meno. «Siamo arrivati alla conclusione che anche una pratica di breve periodo può fare la differenza cominciando a produrre dei cambiamenti biologici rilevabili sia nel cervello che nel resto dell’organismo», conclude Davidson. 

  Tra i cambiamenti più significativi uno riguarda la modificazione nel rapporto tra attivazione della corteccia prefrontale destra e sinistra, che è il modello associato ad una emotività più positiva. Un potenziamento della risposta del sistema immunitario è un altro cambiamento evidenziabile dopo appena due mesi di meditazione. Dunque ancora conferme di efficacia della pratica meditativa, non solo per i per i meditatori esperti ma anche per coloro che hanno iniziato a meditare da un breve periodo di tempo. «É un sollievo, perchè la maggior parte di noi non ha 12.000 ore da dedicare alla meditazione!», commenta entusiasticamente Goleman, a chiusura dell’argomento.