martedì 2 settembre 2014

Come sviluppare il cervello con la meditazione


a cura di Rosalba Miceli


  Fin dove può giungere la mente umana nel cercare di migliorare la capacità di prestare attenzione alle emozioni e di gestirle, di generare stati d’animo più positivi, di entrare in sintonia con gli altri o di avere un atteggiamento amorevole e compassionevole nei loro confronti? Al Mind and Life Institute (Hadley, Massachusetts, USA), una associazione no-profit di studiosi interessati alle neuroscienze, quali lo psicologo, scrittore e giornalista scientifico Daniel Goleman, e Richard Davidson, neuroscienziato e psicologo, docente all’Università del Wisconsin (pioniere della cosiddetta «neuroscienza affettiva»), e membri di gruppi dediti alle pratiche meditative, tra cui il Dalai Lama, si cerca di comprendere quali siano i limiti superiori della plasticità cerebrale.  

  Un promettente campo di ricerca nell’ambito della neuroscienza contemplativa analizza il rapporto individuale tra l’attività delle aree della corteccia prefrontale destra (un’area che si attiva quando siamo sofferenti, depressi o infelici) e l’attività della corteccia prefrontale sinistra (più attiva nell’emotività positiva, quando ci sentiamo entusiasti e carichi di energie mentali). Ogni individuo presenta un particolare rapporto di attivazione destro-sinistro a riposo che può predire in modo abbastanza preciso la gamma del suo umore giorno per giorno. 

  Una interessante conversazione tra Daniel Goleman e Richard Davidson sullo studio ancora in corso all’Università del Wisconsin sulle persone che praticano la meditazione da molto tempo (osservando le variazioni dell’attività cerebrale mediante l’utilizzo dell’apparecchiatura per la risonanza magnetica) è riportata con il titolo “Allenare il cervello: la promozione delle abilità emozionali” nel saggio Intelligenza sociale ed emotiva. Nell’educazione e nel lavoro (a cura di Daniel Goleman, Edizioni Erickson, 2014). «Che genere di cose si osserva in questo particolare gruppo di persone?», chiede Goleman. «...Quando chiediamo di farlo a persone che hanno imparato a meditare da poco, riscontriamo a malapena delle differenze tra i periodi in cui diciamo di meditare e quelli in cui diciamo di non meditare - risponde Davidson -. La cosa più sorprendente di coloro che invece sono abituati a meditare da molto tempo è che si osserva una grossa differenza nella loro attività cerebrale nei due periodi. Nel giro di sessanta secondi cambia così, istantaneamente. E, se tu li osservi dal punto di vista comportale, cioè se ti limiti a guardarli, non vedi alcuna differenza; non si muovono, sono completamente immobili, e quindi, benchè non ci sia una differenza osservabile nel loro comportamento, riescono a modificare il loro cervello in modo straordinario». 

  Il gruppo di ricerca diretto da Davidson ha studiato diverse pratiche specifiche. Non tutte hanno lo stesso tipo di effetto a livello cerebrale. In particolare sono state osservate le persone abituate a meditare da molto tempo che praticavano la forma di meditazione basata in modo consapevole su un atteggiamento compassionevole verso la propria e altrui sofferenza. É una pratica meditativa che trova il fulcro nel messaggio del Dalai Lama al mondo. Secondo il Dalai Lama, essere auto-compassionevoli non differisce in alcuna maniera dall’essere compassionevoli nei confronti degli altri. Le due cose si rivelano piuttosto due manifestazioni differenti della medesima comprensione che deriva dal riconoscere le caratteristiche umane condivise tra noi e gli altri, unitamente all’intenzione di essere più accoglienti e meno giudicanti riguardo la fragilità umana propria e altrui. Quando la compassione è sperimentata e compresa intimamente, si associa ad una visione profonda, ad un sentimento di calore, gentilezza e cura per gli verso altri e al desiderio che le loro sofferenze possano cessare. 

  Mentre tali soggetti stavano meditando e si trovavano in uno stato mentale di compassione, venivano esposti bruscamente ad un segnale di sofferenza, ad esempio, le urla di una donna in preda all’angoscia. «Abbiamo scoperto quindi che, in effetti, la meditazione basata sulla compassione è in grado di mobilitare l’insula e accentuarne l’attività - il che potrebbe essere un elemento fondamentale nel riconoscimento della sofferenza altrui e, cosa ancora più importante, nella motivazione a intervenire in presenza di sofferenza», spiega Davidson. L’insula è una zona del cervello che possiede una mappa dei diversi organi viscerali presenti nel corpo umano; l’insula comunica con altre aree cerebrali come la corteccia prefrontale; grazie a queste connessioni possiamo divenire coscienti delle sensazioni che possono prodursi quando proviamo una certa emozione e verosimilmente, sperimentare lo stesso stato corporeo della persona con cui si sta empatizzando in un dato momento. 

  «Tra l’altro - continua Davidson -, a proposito dell’intervenire in presenza di sofferenza, un’altra cosa importantissima che abbiamo osservato, e che inizialmente ci ha colti del tutto di sorpresa, è che durante la meditazione basata sulla compassione si attivano certi sistemi cerebrali associati all’azione... quindi, benchè questi soggetti non si muovano affatto, non siano impegnati in un’azione motoria, questi sistemi, per dirla con il linguaggio della psicologia, sono “preparati”, è ciò che intendiamo con questo è che la loro sensibilità è acuita, cosicchè quando ci si imbatte nella sofferenza nel mondo reale, quando queste persone non sono impegnate nella loro pratica di meditazione formale, hanno maggiori probabilità di mettere in atto un comportamento di aiuto per contribuire ad alleviare la sofferenza». 

 Il gruppo di ricerca ha studiato anche un altro tipo di meditazione che richiede di concentrare l’attenzione, creando uno stato attentivo della mente sull’esperienza che il soggetto sta vivendo in quel preciso momento. Gli studi sono stati condotti sia su soggetti abituati a praticare questo tipo di meditazione da moltissimo tempo, sia su persone mediamente esperte e poco esperte, che in certi casi hanno meditato per due mesi o anche meno. «Siamo arrivati alla conclusione che anche una pratica di breve periodo può fare la differenza cominciando a produrre dei cambiamenti biologici rilevabili sia nel cervello che nel resto dell’organismo», conclude Davidson. 

  Tra i cambiamenti più significativi uno riguarda la modificazione nel rapporto tra attivazione della corteccia prefrontale destra e sinistra, che è il modello associato ad una emotività più positiva. Un potenziamento della risposta del sistema immunitario è un altro cambiamento evidenziabile dopo appena due mesi di meditazione. Dunque ancora conferme di efficacia della pratica meditativa, non solo per i per i meditatori esperti ma anche per coloro che hanno iniziato a meditare da un breve periodo di tempo. «É un sollievo, perchè la maggior parte di noi non ha 12.000 ore da dedicare alla meditazione!», commenta entusiasticamente Goleman, a chiusura dell’argomento. 

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