venerdì 30 settembre 2016

La dipendenza da smartphone che ci rende più soli


L’ultimo libro della psicologa americana Sherry Turkle mette in guardia dall’abuso di dispositivi mobili. Che eternano la connessione e ci rendono meno capaci di entrare in contatto con gli altri. E con noi stessi

di Fabio Deotto 
Dal numero di pagina99 in edicola il 24 settembre 2016


 Sulle colline di Mendocino, nel nord della California, incastonato in un bosco di sequoie c’è un campo estivo in cui le persone pagano quasi 600 dollari a weekend per liberarsi dei propri telefonini. Camp Grounded è uno spazio sicuro per chi cerca una vacanza lontano da email, messaggini, telefonate e notifiche social, una sorta di clinica di disintossicazione per maniaci della connessione: essere sempre online – questo il messaggio che emerge tra le righe della brochure – significa disimparare a rapportarci in modo autentico con gli altri e, per certi versi, anche con noi stessi.

 Questa è la tesi al centro del nuovo libro di Sherry Turkle, La conversazione necessaria (Einaudi, pp. 456, euro 26), in cui la psicologa americana riprende le fila di un discorso iniziato con Insieme, ma soli (Codice, 2011), concentrandosi questa volta su una pratica sociale sempre più sottovalutata. La tecnologia mobile è diventata ormai talmente presente nelle nostre vite che spesso non riusciamo a finire una chiacchierata senza estrarre di tasca il telefonino, alle conversazioni vis-à-vis tendiamo a preferire messaggi digitali (su cui abbiamo maggiore controllo) e invece di concentrarci su un solo interlocutore teniamo aperte decine di scambi in un continuo multitasking.

 Tutto questo – si chiede Turkle – sta riducendo le nostre capacità empatiche? I dati suggeriscono di sì. In uno studio condotto presso la Ucla da Yalda T. Uhls, due gruppi di ragazzini tra gli 11 e i 13 anni sono stati sottoposti a un esperimento: i primi avevano passato cinque giorni in un posto simile a Camp Grounded, i secondi erano rimasti a contatto con televisione, internet e videogiochi. A un successivo test per la valutazione delle capacità empatiche, i ragazzini del primo gruppo dimostravano un’abilità significativamente maggiore ad associare l’espressione facciale di un volto a una specifica emozione.

 Secondo Turkle, la spiegazione di questo risultato è semplice: i bambini imparano a rapportarsi agli altri osservando le reazioni alle proprie parole sul viso dell’interlocutore e modulano di conseguenza il proprio tono di voce, la mimica facciale e la gestualità. Fornire a un bambino un surrogato digitale della conversazione, dunque, può comprometterne la capacità di esprimersi e di comprendere le emozioni altrui. Si tratta di una questione cruciale, considerando che l’età media in cui una persona inizia a utilizzare un cellulare si sta abbassando di anno in anno (stando uno studio intitolato Exposure and Use of Mobile Media Devices by Young Children, un neonato su sette utilizza lo smartphone per almeno un’ora al giorno già nei primi dodici mesi di età).

 Qualcuno, come il sociologo Nathan Jurgenson, liquida le argomentazioni di Turkle come gli schiamazzi di una «disconnectionist», una sorta di neo-luddista in chiave mobile affetta da un irragionevole catastrofismo. Dopotutto – obietta Jurgenson nel suo articolo Fear of Screens, apparso sul New Inquiry lo scorso gennaio – non è la prima volta che una tecnologia viene scomunicata in quanto potenzialmente alienante: l’automobile e la televisione sono agenti di isolamento sociale, eppure la nostra architettura relazionale è ancora intatta; il sociologo, inoltre, aggiunge che i parametri con cui gli studi citati da Turkle pretendono di valutare i livelli di empatia non sono del tutto attendibili: «In fondo cos’è davvero l’empatia? Se non è possibile darne una definizione precisa, a che scopo allora provare a misurarla?».

 Le obiezioni di Jurgenson, tuttavia, per quanto mirate, non convincono: l’automobile e la televisione forniscono un’alternativa al contatto sociale, non un surrogato, come invece accade con gli smartphone; inoltre, per comprendere come un utilizzo incontrollato dei dispositivi mobili possa incidere sulle nostre abilità empatiche, è sufficiente qualche fondamento di neuropsicologia, e un po’ di buon senso. Sappiamo, dalle indagini condotte da Albert Mehrabian, che quando si tratta di comunicare i propri sentimenti la componente verbale incide per una percentuale molto bassa rispetto a quelle non verbali (espressioni del viso, voce, postura, eccetera).

 Ricerche condotte indipendentemente da Jean Decety, Frans De Waal e Vittorio Gallese hanno dimostrato il ruolo cruciale dei neuroni specchio (quelli che si attivano sia quando un individuo compie un’azione, sia quando osserva un altro individuo compierla) nella comprensione delle emozioni altrui. Infine, in uno studio finanziato dalla University of Essex, Andrew K. Przybylski ha mostrato come la semplice presenza di uno smartphone sia sufficiente a compromettere la qualità di una conversazione: gli interlocutori sanno di poter essere interrotti in qualsiasi momento, e tendono a dirottare su argomenti leggeri che richiedono poca attenzione.

 Prendere atto dei dati forniti da Turkle non significa prepararsi a dire addio alla tecnologia, significa piuttosto dotarsi degli strumenti necessari a un utilizzo consapevole della stessa. Oggi i telefonini sono diventati un facile antidoto alla noia, un serbatoio di gratificazione pronto all’uso (ricevere notifiche social produce un rilascio di dopamina analogo al fumo di sigaretta o al gioco d’azzardo), ma soprattutto un modo per non rimanere mai soli con noi stessi. Trent’anni di ricerche sulla connettività funzionale intrinseca hanno dimostrato come i momenti di noia e di solitudine siano fondamentali: quei buchi di tempo che cerchiamo forsennatamente di tappare sono gli unici momenti in cui il nostro cervello “conversa” con se stesso, riorganizzando i ricordi autobiografici e le nuove informazioni apprese; è in quegli intervalli di vuoto che riflettiamo su noi stessi, sulle nostre azioni, sulle nostre emozioni.

 Ed è questo il vero paradosso su cui vale la pena concentrarsi: la tecnologia dovrebbe aiutarci a connetterci più facilmente con gli altri, utilizziamo dispositivi connessi in maniera compulsiva illudendoci di avere sempre più amici, eppure le nostre abilità empatiche vanno peggiorando, ci sentiamo sempre più isolati, e allo stesso tempo meno capaci di rimanere soli con i nostri pensieri. In altre parole: meno capaci di capire chi siamo e chi vogliamo essere.



giovedì 29 settembre 2016

La criminologia dinamica: una via per la prova regina del dna


di Eugenio D'Orio

 I più recenti fatti di cronaca dimostrano quanto, sempre più frequentemente, la risoluzione di un processo si avvalga e si basi dei dati scientifici, oltre che sugli atti di investigazione classica (o tipici) effettuati dal PM o dalla PG nel corso delle indagini preliminari.

La prova regina

 È opportuno, in tale ottica, fare un breve ma mirato focus su ciò che dai media, da circa 15 anni a questa parte, è stata definita “prova regina”, ossia occorre disaminare sull’effettiva rilevanza ai fini probatori del DNA.

 Innanzitutto, è doveroso indicare che, nella stragrande maggioranza dei casi, i DNA repertati sulle scene del crimine e/o sui reperti, sono di esigua quantità, per cui molto spesso sono oggetto di accertamenti irripetibili, da compiersi tramite le modalità dell’istituto normativo 360 c.p.p.; molto spesso, solo a seguito dell’analisi genetica è possibile iscrivere fattivamente un soggetto nel registro degli indagati, tuttavia si porrà in seguito la problematica legata alla verifica di quanto operato dai periti incaricati nel corso dell’analisi genetica.

 Ragion per cui, una nuova linea di pensiero in dottrina, esposta dal magistrato Gennaro Francione, ritiene che, per conformarsi agli standard garantistici dettati nella nostra Costituzione, è doveroso eleggere un difensore ma soprattutto un consulente “pro-incognito” che presieda ai suddetti accertamenti; così facendo si elimina il tanto dibattuto in diritto problema della confutabilità, se per ragioni di quantità della traccia biologica la ripetizione dell’accertamento è impossibile.

Le nuove posizione della comunità scientifica-forense

 Tuttavia, parte della comunità scientifica-forense, in merito a questa tematica, sta prendendo posizioni nuove e diverse, in cui il risultato dell’accertamento della prova genetica non costituisce più, da solo considerato, il corpus di “prova regina”, bensì tali scienziati, tra cui il sottoscritto, sono dell’avviso che il dato genetico, se non corredato opportunamente da ulteriori riscontri scientifici inerenti le modalità e le tempistiche di rilascio della suddetta traccia biologica, si limitino ad essere meri indizi (tra l’altro anche molto imprecisi), in quanto il DNA non è, in base all’esame genetico, databile.

L’analisi genetica

 Inoltre l’analisi genetica non comprende uno studio di tipo biologico-dinamico volto a comprendere le modalità di deposizione del materiale biologico ove repertato. Tali aspetti sono di rilevante importanza per poter scientificamente ragionare ed usare il dato scientifico in chiave ricostruttoria dell’evento delittuoso indagato, ossia utilizzarlo in maniera di “prova regina” propria e completa.

 Si aggiunga, poi, come da recente pronuncia sul tema della Corte di Cassazione, che, qualora sia dimostrabile un momento anche solo di possibile contaminazione il dato scientifico non potrà essere utilizzato dal giudicante per la valutazione dell’evento e delle responsabilità dell’imputato. Il caso citato è proprio quello inerente la pronuncia della Cassazione in merito alla colpevolezza di R. Sollecito nell’omicidio di M. Kercher. Il che implicitamente avalla la necessità di un consulente pro incognito ab origine atto a garantire la bontà delle assunzioni e il rispetto delle procedure scientifiche. Visti dunque i trascorsi rilevanti del tema, se ne vuole fornire una possibile risoluzione.

L’esperimento giudiziale

L’esperimento giudiziale, di cui all’art. 218 c.p.p., può esser la chiave per risolvere tale problematica, andando correttamente ad inquadrare se il risultato di un dato DNA può o meno esser considerato dal giudicante come “prova regina”.

 Recita il testo dell’art. 218 c.p.p. “L’esperimento giudiziale è ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo. L’esperimento consiste nella riproduzione, per quanto è possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento dello stesso”.

 L’analisi del testo della normativa esalta ciò che è il “vero” processo scientifico, il quale mutua dalla scienza il concetto di ripetibilità per applicarlo in sede forense. In quest’ottica, si ritiene opportuno, a fronte sia del garantismo sia del progresso scientifico, predisporre, ogni qualvolta vi sia un dato genetico, un esperimento giudiziale volto a riprodurre l’evento e alla disamina delle modalità e delle tempistiche che hanno prodotto il deposito del DNA indagato.

 Infatti, va ben sottolineato il concetto che, di per sé, il test genetico è un esame, scientificamente validissimo, ma di tipologia “statica”, ossia dà solo informazioni circa una presenza del soggetto a cui quel DNA appartiene nel posto ove repertato.

 Tale concetto di staticità rischia di porsi alla base dell’errore giudiziario, in quanto è alto il rischio di un abuso dello stesso, non per dolo, ma per errata valutazione interpretativa a livello probatorio. Infatti, essendo i crimini, specie quelli di omicidio, situazioni dinamiche, composti cioè da ripetuti movimenti sia dell’offender che della vittima, è opportuno che anche i DNA repertati sulle scene del crimine siano esaminati in chiave “dinamica”.

 Ciò per rendere la “prova regina” (o scientifica) realmente tale, e la via per realizzare quest’obiettivo è unicamente sinergizzare l’analisi genetica (di tipo statico) con l’analisi delle quantità di materiale biologico repertato e le loro relative posizioni (che assumono, in quest’ottica, valenza dinamica). Solo così il quadro degli elementi probatori è completo ed assume la giusta rilevanza senza condurre il giudicante ad errori valutativi.

La sola presenza di un DNA può considerarsi come “prova regina”?

 Ragion per cui, la sola presenza di un DNA su una scena del crimine o su un reperto, non può da sola considerarsi come “prova regina”, in quanto, questa stessa prova dovrà esser concorde con quanto risulta da altri esami performati dalle diverse figure di professionisti che operano nel settore forense.

 Viceversa, se si ha un dato DNA, la cui deposizione (per quantità e posizione) non è compatibile con le modalità con le quali si ritiene che il delitto sia stato perpetrato, questo non potrà mai divenire prova contro l’imputato (o soggetto che ivi ha deposto quel DNA), bensì si limiterà ad esser un mero indizio in danno di quel soggetto, che deve necessariamente trovare il suo scientifico supporto.

Tecniche scientifiche forensi in uso in America e in Inghilterra

 L’applicazione reale di quanto qui enunciato è possibile mutuando le tecniche scientifiche forensi già in uso in America ed in Inghilterra, ove già vari casi hanno visto l’applicazione dell’esperimento giudiziale in ordine alla riproduzione dell’accaduto. Tale tecnica è già stata usata in passato anche qui in Italia, per esempio nei casi di morte sospetta in cui un soggetto si diceva esser caduto da un balcone, mentre altri sostenevano che il soggetto fosse stato da lì spinto, per cui vittima di omicidio.

 In quel caso, tramite l’esperimento giudiziale, ripetendo l’evento con appositi manichini conformi per peso e dimensione alla vittima, si è visto che, se il soggetto fosse caduto, avrebbe impattato il suolo in un modo diverso da come fu rinvenuto; ciò dimostrò che il soggetto fu spinto, per cui vittima di omicidio.

Applicare l’esperimento giudiziale anche alla prova del DNA

 Sulla falsariga di quanto enunciato è possibile applicare l’esperimento giudiziale anche alla prova del DNA, facendo sì che il dato genetico-statico si trasformi in dato dinamico scientificamente ed oggettivamente preciso ed idoneo alla valutazione del giudicante.

 Tale concetto ha una amplia ed immediata applicazione nei casi odierni, basti pensare, e lo cito ad esempio, al tanto dibattuto omicidio di Yara Gambirasio che ha visto la condanna all’ergastolo dell’imputato M. Bossetti solo sulla base dell’identificazione genetica (elemento statico), mancando di quest’ulteriore considerazione critica (elemento dinamico); infatti, il Sig. Bossetti è stato condannato sulla base del solo dato del DNA, inteso come “elemento statico”, ma la PM ha giustamente fornito un’accurata e dettagliata descrizione di come il Sig. Bossetti abbia ivi deposto la sua traccia biologica, a seguito dell’aggressione alla vittima mediante l’uso di un coltello.

 Tuttavia mai, ahimè, è stato giustamente performato nè ideato un esperimento giudiziale in tal senso, ossia volto a rendere “dinamica” ed oggettiva la prova usata per la condanna del Sig. Bossetti. Nello specifico, sarebbe stato opportuno che la Corte, d’ufficio o su richiesta delle parti, avesse ordinato un esperimento giudiziale la cui finalità era quella della riproduzione dell’atto omicidiario e successivamente andare a verificare se, a seguito del descritto atto, il DNA del Sig. Bossetti si potesse trovare nel posto ove repertato, e solo lì e non altrove.

 Aspetti scientifici di primaria importanza questi ai fini probatori, in quanto ragionevolmente ci si aspetta che, se un uomo adulto aggredisce mediante un coltello una bambina (e si pensi alle notevoli differenze di massa fisica tra i due) e l’aggressione va avanti per alcuni minuti, si ritiene ragionevolmente che il DNA dell’offender sia presente in molteplici punti del corpo della vittima (e anche nelle immediate adiacenze) oltre al fatto che sia presente in quantità davvero molto elevate. Ciò, che è ragionevole in teoria, non trova conferma nella pratica, in quanto il DNA del sig. Bossetti è stato trovato in quantità minima e solo su un preciso punto del corpo della vittima.

Nuova teoria della “criminologia dinamica”

 Da ciò si desume che è fortemente dubbio che il DNA considerato probatoriamente sia effettivamente coincidente con quello che lì avrebbe deposto l’offender per ragioni scientifiche e dinamiche. Ciò detto è in armonia con quanto postulato nella nuova teoria della “criminologia dinamica”, sostenuta in vari convegni anche dal Giudice Francione, che è appunto sinergia tra le scienze criminalistiche e la criminologia correntemente in uso, il cui aspetto dinamico risiede nell’applicare tecniche scientifiche per chiarire e dimostrare nel particolare le modalità di svolgimento dei fatti delittuosi indagati.

 L’esperimento giudiziale potrebbe esser la chiave di volta sia per aumentare e massimizzare la comprensione e il giudizio del dato scientifico in sede processuale, sia per comprendere il giusto e novellato concetto di “prova regina” del DNA, possibile, vista la moderna scienza e conoscenza, solo sinergizzando il dato statico dell’esame genetico con il dato dinamico proveniente dall’integrazione di questo con i fattori quantitativi e spaziali.


Eugenio D'Orio, Laureato in scienze biologiche all'Università "Federico II" di Napoli, perfezionato in "forensic science and DNA analysis" all'Università di Cambridge. Già CTU del Tribunale Penale di Torre Annunziata e CTP. Membro dell'NIJ, Ge.F.I., ONB e AcISF. Collabora al movimento di Neo-rinascimento del sistema Giustizia, fondato dal Magistrato Francione, movimento che tende a far sì che l'iter processuale attualmente in vigore si fondi maggiormente sulle prove scientifiche propriamente usate e si discosti dall'attuale processo di natura indiziaria, altamente fallace e causa spesso di gravi errori giudiziari.

mercoledì 28 settembre 2016

Lo dice la scienza: dare spazio alla creatività fa bene al cervello



Ora le conferme arrivano dal mondo scientifico; la creatività fa bene al nostro cervello ed è assolutamente necessaria per il nostro benessere

di Kadò Flowerdsign Piacenza

 Che dedicare momenti alla creatività fosse salutare per il nostro sistema psicofisico, già lo sapevamo... ma ora le conferme arrivano dal mondo scientifico; la creatività fa bene al nostro cervello ed è in grado di modificarne capacità e anatomia fino all'ultimo giorno della nostra vita. Creativi non si nasce, si diventa! Ad affermarlo è in particolare Estanislao Bachrach, uno dei maggiori esperti di neuroscienze al mondo, nel suo libro "Il cervello geniale". In passato si credeva che neuroni e sinapsi non potessero più essere modificati dopo lo sviluppo del cervello, ora invece è provato che possiamo continuare ad apprendere per tutta la vita, e così facendo modifichiamo fisicamente il nostro cervello e la sua rete di connessioni.

 Siamo abituati a considerare creativi solo coloro che hanno una propensione all'arte, alla musica, alla pittura, infatti chi intraprende studi scientifici viene tipicamente considerato "quadrato" e poco creativo. Ma creatività è invece, secondo Bachrach

la capacità di connettere idee e concetti lontani tra loro e creare combinazioni inedite di cose già note attraverso la combinazione di concetti ed esperienze che già avevamo immagazzinato nella nostra memoria. 

 Quando queste combinazioni emergono a livello cosciente, "vediamo" l'idea. Perciò tante più idee abbiamo, tanto maggiore sarà la possibilità che tra esse ci siano idee nuove, originali e creative, è questione di probabilità. Grandi aziende basate sull'innovazione, adottano il sistema "100 idee in un'ora", spingendo i propri dipendenti a produrre in un breve lasso di tempo quante più idee possibili utili a risolvere una sfida creativa. Le prime idee saranno scontate e banali, mano a mano che si procederà le idee saranno sempre più nuove e complesse e aumenterà la possibilità che tra esse ci possa essere la soluzione al problema.

 Ma la creatività non si può attivare a comando, è una capacità collegata al contesto, per essere creativi bisogna essere immersi in un ambiente stimolante privo il più possibile di stress. Lo stress, secondo Bachrach, 

è causato dal nostro desiderio di controllo, che quando viene disatteso crea in noi ansia e nervosismo. 

Quando cioè non possiamo controllare il tempo atmosferico, il traffico, la mente delle altre persone e così via, siamo frustrati e non facciamo altro che incrementare il nostro livello di ansia e stress senza rimedio. Inoltre la delusione dall'impossibilità di soddisfare desideri indotti, quali l'acquisto di nuovi prodotti alla moda, la nuova casa, la nuova auto, la nuova tecnologia, costituisce un'ulteriore fonte di stress. Infine siamo individui abitudinari, questo ci porta a vivere in modo automatico, senza chiederci se potremmo impiegare meglio il nostro tempo, ma il tempo in realtà è più flessibile di quanto si pensi! La soluzione sta nell'abbandonare le consuetudini e le "risposte automatiche" alle problematiche quotidiane e ragionare invece su modi di vivere più consoni ai nostri ritmi personali. Per farlo è però necessario volerlo ardentemente.

 La creatività è favorita da momenti di calma e relax che "abbassino il volume" della parte del nostro cervello dominante, quella razionale e logica, per poter ascoltare la debole voce della parte del nostro cervello legata ad intuizioni ed emozioni, quella in grado di generare idee creative. Per farlo esistono svariate tecniche di meditazione, ma aiutano in questo senso anche attività di svago e gioco, lo sport, lo stare in mezzo al verde e ai fiori, stare in silenzio, ma anche spingere un bambino sull'altalena, lavare i piatti, giocare con il proprio cane! Per ritrovare il benessere mentale e stimolare la creatività può essere utile riscoprire la dimensione del gioco anche tra gli adulti. Il sistema educativo del XX secolo si è basato sull'analisi logica e sul ragionamento deduttivo, ma per conquistare il XXI secolo sono invece necessarie capacità empatiche e creative. Imprese, governi e organizzazioni, richiederanno ai propri membri creatività, e saranno gli individui creativi ad emergere e fare la differenza nella società, nel commercio e nell'economia, promuovendo il progresso. Scrive Bachrach 

"la creatività è il motore principale del processo evolutivo e culturale della nostra società contemporanea".

 Per liberare la nostra creatività dobbiamo dunque desistere dalla nostra rincorsa permanente di risultati, e liberare la curiosità. Curiosità. .. altra parola chiave! Il motore che ci spinge a scoprire cose nuove, nuovi orizzonti e nuove soluzioni a sfide e problematiche che siamo chiamati ad affrontare e risolvere. Gli individui più creativi sono anche i più curiosi, amano ciò che fanno e si dedicano alle proprie attività con passione. Non vivono secondo risposte preconfezionate ma cercano sempre di rompere gli schemi e scoprire sentieri nuovi da percorrere, senza lasciarsi condizionare dal "così fan tutti".

 Nel leggere le parole di questa voce autorevole nel panorama scientifico contemporaneo, ci siamo sentiti sollevati nell'apprendere che dedicare momenti a ciò che ci piace davvero, non è solo tempo libero ma qualcosa di assolutamente necessario al nostro benessere psicofisico e che anzi, è la condizione necessaria senza la quale non può emergere la nostra creatività! 


 Ci sentiamo dunque anche orgogliosi nel sapere che con le nostre attività in negozio, contribuiamo ad offrire quei luohi e quei momenti così rari e preziosi in mezzo alla frenesia e alla complessità del mondo di oggi, utili per godere di calma e pace necessarie per far emergere a pieno le nostre inesplorate capacità mentali. Vi aspettiamo dunque alla nostra "palestra"per il cervello! A presto...





martedì 27 settembre 2016

Il mistero di Bruno Gröning, guaritore miracoloso di Herford




di Mara Macrì

 Uno dei principali obiettivi della teoria e della ricerca sociologica, implica l’identificazione dei molteplici aspetti della società evidenziandone i fenomeni che la caratterizzano. Il presente elaborato si colloca in quella tradizione di studi che fa proprio questo principio, trattando una tematica complessa e controversa: la 'guarigione miracolosa'.

 Tale evento sovrannaturale, quando accade, trova prevalentemente una sua spiegazione nella religione perché rappresenta, generalmente, per gli esseri umani il ponte ufficiale tra l’uomo e la divinità. Dio s’incarna in Gesù Cristo per ribaltare ogni concetto dogmatico attraverso la Sua parola taumaturgica e trasforma gli uomini da servi peccatori a figli di un Padre buono. Gesù li guarisce salvandoli per mezzo della fede, sostenendo che i suoi discepoli possono compiere le stesse azioni “nel Suo nome” in quanto dotati dei doni dello Spirito Santo, e per tali motivi legittimati a proseguirne l’opera salvifica.

 È con spirito valutativo, dunque, che è stata affrontata l’area sociale, poiché molti individui si auto-definiscono guaritori. Un settore, questo, saturo di varie realtà, spesso inquietanti, legate a scopi di lucro che ben poco hanno a che vedere con i miracoli di Gesù Cristo. Per simili ragioni, ne vengono a soffrire quei personaggi che, nella verità dei figli di Dio, attuano guarigioni inspiegabili all’intelletto umano, naturalmente a titolo gratuito, e che affermano di essere soltanto umili strumenti di Dio: come nel caso di Bruno Gröning. Un uomo divenuto un fenomeno mondiale negli anni ‘50 meritevole di essere citato per il suo operato…

La storia di un uomo semplice

 Bruno Gröning nasce a Danzica il 31 maggio del 1906 in un momento storico spinoso. È il quarto di sette figli e la madre, che ha sempre avuto parti dolorosi, lo mette al mondo – con stupore della levatrice – circondata da un fascio di luce che avvolge sia lei che il bimbo; poi scende dal letto e si reca dal marito che si trova a miglia di distanza. Da quel momento accadono strani fenomeni. Infatti, fin dalla prima infanzia, Bruno dimostra di possedere rare qualità, alla sua presenza guariscono persone ed animali e, di sovente, si allontana per immergersi nel silenzio del bosco, nei pressi della sua abitazione. Il padre August, un uomo rigido e incline alla collera, lo maltratta per queste 'bizzarrie' e l’unica a proteggerlo è sua madre, una donna dolce e mite. Il bambino, pertanto, vive la sua infanzia in un’alternanza tra il bene e il male, ed i suoi comportamenti originali scatenano rabbia e sconcerto al punto che in famiglia viene definito 'il matto'.

 A causa della prima guerra mondiale riesce a frequentare la scuola fino alla quinta classe. Impara presto a guadagnarsi da vivere facendo il falegname, il muratore, l’elettricista, il meccanico, ed altri mestieri… Si sposa nel 1927 all’età di 21 anni. Il suo non è un matrimonio felice, la moglie non lo comprende e non crede nella sua forza guaritrice. Dall’unione nascono due figli Harald e Gűnter (1931-39 e 1939-49) che muoiono entrambi in ospedale. Durante la seconda guerra mondiale è chiamato alle armi, combatte sul fronte russo dove viene imprigionato. Nel duro periodo di prigionia freddo e fame attanagliano lui e i suoi compagni, tuttavia Bruno riesce a provvedere ad essi comunicando agli ufficiali russi che per ordini che vengono “dall’alto” devono distribuire cibo ed abiti pesanti per tutti. E stranamente i militari obbediscono… Riacquista la libertà durante la profonda trasformazione della Germania e trasferitosi nella parte Ovest del Paese inizia la sua missione, quella che lo condurrà a divenire 'Il medico dei miracoli'. Siamo nel 1949.

Tra il cielo e la terra vi sono cose che sfuggono all’intelletto…

 Bruno Gröning si spinge nella zona della Ruhr, dove sempre più persone guariscono dalle loro malattie. Si sposta di casa in casa chiamato ad aiutare, sempre disponibile ed instancabile finché un giorno un ingegnere di Herford lo invita a far visita al figlio di nove anni, malato di distrofia muscolare progressiva. Bruno riesce a far camminare il piccolo ed il padre, commosso, lo prega di rimanere presso di lui per aiutare altri malati. Egli accetta e da quel momento la sua fama si espande, ogni giorno arriva sempre più gente da ogni parte della GermaniaTutti parlano di lui e del fenomeno Gröning. La stampa tedesca inizia ad occuparsi del caso, i più importanti giornali lo definiscono 'il medico dei miracoli' ed anche la stampa internazionale ne viene a conoscenza.

 Da un estratto di Revue, Il miracolo di Herford:
 “Giorno e notte arrivavano masse di gente ad Herford – scrive il cronista - nella piazza Wilhelm al numero 7, casa nella quale alloggiava Bruno Gröning presso i genitori del bambino che aveva guarito. La miseria umana che si manifestava era impressionante e senza limite. Nei giardini circostanti la casa e nelle zone vicine sedevano gli ammalati sulle sedie a rotelle, distesi su barelle, aspettando di essere guariti... Da ogni parte della Germania arrivavano i sofferenti, i giovani e i vecchi, le donne, le ragazze, i bambini di ogni classe sociale, americani, inglesi, belgi, svizzeri, svedesi, ungheresi, polacchi, ed anche zingari richiamati dalla guarigione di un bambino zingaro muto. Infermi, ciechi, sordi, una comunità di miseria e di bisogno. Gente povera senza speranza con un unico desiderio: guarire!”

 Il sensazionalismo intorno al 'medico dei miracoli' si protrae nel tempo mantenendo la Germania con il fiato sospeso. Viene girato un film e chiamate in causa Commissioni Scientifiche e Tribunali, che vietano a Bruno di operare guarigioni perché viola l’onore professionale dei medici. Si espongono anche le più alte cariche dello Stato con pareri contrastanti. Il Ministro della Previdenza Sociale della Westfalia e Reno del Nord accusa Bruno Gröning di abuso della legge empirica, mentre il Presidente Ministeriale della Baviera dichiara che per l’eccezionale apparizione di questo straordinario uomo, non si può gettare alle ortiche la sua opera, che definisce "libera opera d’amore". Inoltre, la Chiesa Protestante ritiene il suo operato incompatibile con i dettami della fede, mentre numerosi sacerdoti cattolici lo seguono con fiducia, definendo le guarigioni benedizioni donate da una Forza Superiore…

 Tra la miseria umana e la contesa, si spalanca un abisso di difetti umani e Bruno stesso commette l’errore di affidarsi - per la gestione di quella che ormai è un’attività che coinvolge migliaia di persone - a soci interessati soltanto a sfruttarlo lucrando sul suo operato, che lo espongono ancora una volta all’attenzione della giustizia. Ma viene assolto dai giudici di Monaco di Baviera che, pur riconoscendogli la buona fede, gli ordinano di cessare ogni attività. Dopo il processo Gröning presenta il suo operato come un insegnamento spirituale, staccandosi da quei 'dottori' che chiedono denaro ai sofferenti. Ma la situazione peggiora e nel 1955 viene implicato in una serie di vicende giudiziarie; i mancati guadagni hanno indispettito alcuni individui che si definiscono medici. Tra questi il suo maggior accusatore è Otto Meckelbur, che per vendetta fa riemergere una storia grave accaduta anni prima, da lui stesso manipolata con lo scopo di distruggere la figura di Bruno, che viene accusato di aver promesso la guarigione dalla tubercolosi ad una ragazza, in seguito deceduta. Nel 1956 è assolto dall’accusa di omicidio e condannato per esercizio abusivo della professione medica, dopo due anni, in appello, viene nuovamente ingiustamente incriminato. Bruno Gröning tenterà un ricorso, ma ormai è troppo tardi: gli viene diagnosticato un cancro allo stomaco. A Parigi, durante i due interventi, lascia interdetti i medici che trovano i suoi organi interni, non devastati da un cancro, ma completamente carbonizzati…

 Termina i suoi giorni il 26 gennaio del 1959, il processo si concluderà a causa del decesso dell’imputato, la cui sentenza definitiva non sarà mai pronunciata. L’urna con le sue ceneri è deposta presso il cimitero forestale di DillenburgIl 'guaritore miracoloso di Herford' colui che aveva guarito migliaia di persone, morì solo, in una clinica di Parigi. Ma perché accadde? Perché sopportò una sofferenza così amara e tante ingiustizie? Perché non poté aiutare se stesso?

 Grete Häusler - fondatrice dei Circoli degli amici di Bruno Gröning in tutto il mondo, così scrive nel suo libro Das Heil erfahren das ist Wahrhei:
 “Bruno Gröning nella sua breve permanenza su questa terra ha portato tanto bene. Il dono di aiutare gli era innato fin dalla culla. Dovunque egli andasse accadevano cose meravigliose, non spiegabili con l’intelletto. Al pubblico si presentò nel 1949 e dopo le migliaia di guarigioni, dopo soli tre mesi, gli fu vietato di aiutare. Fu inseguito, perseguitato e processato più volte. Si volle penalizzarlo e condannarlo. Perché? A chi ha fatto del male? A nessuno. Ha fatto soltanto tanto bene a moltissime persone…Era innocente ma si volle punirlo. Era innocente ma gli fu vietato ciò che Dio gli aveva ordinato di fare: aiutare gli uomini!”

 Bruno Gröning non era un guaritore, ma un grande mistero… Un mistero di Dio.


lunedì 26 settembre 2016

La Scuola che ha sostituito la punizione con la meditazione





Un istituto scolastico americano ha deciso di introdurre tecniche di respirazione e meditazione per calmare e incoraggiare a riflettere i suoi studenti più turbolenti

 Le scuole sono ricominciate da circa due settimane, per gli studenti e gli insegnanti la routine dell’anno scolastico è definitivamente ripartita, nel bene e nel male. Una delle sfide più ardue per docenti ed educatori, oltre a quella di far apprendere i bambini e i ragazzi, è mantenere l’ordine e la disciplina in classe. Ogni insegnante ha una sua strategia e ogni insegnante affronta in modo diverso gli studenti più turbolenti.

 Ma per quanto il temutissimo righello sulle nocche sia ormai un lontano ricordo appartenente a un paio di generazioni fa e per quanto sia oggi assodato che la comunicazione funziona meglio del castigo, dovendosi occupare di classi intere e non di singoli casi, una delle soluzioni più semplici e usate resta quella della punizione.

 Una scuola di Baltimora, ha però deciso di adottare un approccio diverso e ha sostituito l’aula spoglia dove di solito gli studenti in punizione trascorrono lunghi momenti a fissare muri, annoiarsi a morte e tentare senza successo di leggere un libro, con una sala completamente diversa. Si tratta di una stanza colorata con lampade, decorazioni e soffici cuscini dove gli studenti “difficili” sono incoraggiati a calmarsi e concentrarsi attraverso tecniche di respirazione e meditazione, ma anche a parlare di cosa è successo.

 La scuola elementare Robert W. Coleman ha constatato che questo metodo alternativo ha effetti molto positivi sui suoi allievi e dall'anno scorso ad oggi non ci sono state sospensioni disciplinari. In effetti, i meriti quasi taumaturgici della meditazione, una pratica che l’uomo ha adottato in varie culture per migliaia di anni, sono oggi oggetto di studio e alcune ricerche suggeriscono appunto che la meditazione aiuta a migliorare la concentrazione e la consapevolezza di sé.

 La scuola elementare di Baltimora che ha sostituito la punizione con la meditazione ha realizzato la stanza in collaborazione con un’organizzazione no profit locale, la Holistic Life Foundation, che ha attivato anche altri programmi rivolti ai bambini, inclusi alcuni dedicati allo yoga e all'ambiente. Tra gli effetti positivi di queste iniziative, c’è anche il fatto che i bambini portano a casa ciò che hanno imparato e lo trasmettono al resto della famiglia. Una mamma ha riferito che una sera, quando è tornata a casa stremata e stressata, la figlia l’ha invitata a sedersi dicendole, “vieni, ti insegno come respirare”.

 Potrebbe funzionare anche nelle scuole italiane? Probabilmente un tentativo meriterebbe di essere fatto.

venerdì 23 settembre 2016

Gli esseri umani di tutto il mondo danzano (quasi) allo stesso ritmo


di Giovanna Bianchi

 Un nuovo studio condotto da Università di Exeter e Tokyo University of the Arts ha rivelato che i canti di tutto il mondo tendono a condividere alcune caratteristiche, tra cui il ritmo trascinante, che consentono la coordinazione dei movimenti nei cerimoniali e incoraggiano il legame di gruppo.
 Nonostante decenni di scetticismo sull’esistenza di aspetti universali e transculturali nella musica, lo studio dimostra la presenza di caratteri comuni nella musica mondiale. I risultati, pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), rafforzano l’idea che la musica è un potente collante sociale che aiuta a tenere insieme le comunità umane. Thomas Currie, del Centro di ecologia e conservazione presso il Penryn Campus dell’Università di di Exeter, ha detto:

 I nostri risultati aiutano a spiegare perché gli esseri umani fanno musica. Essi ci mostrano che le caratteristiche più comuni riscontrate nella musica di tutto il mondo sono legate a quegli aspetti che permettono agli individui di coordinare le loro azioni, suggerendo che la sua funzione primaria sia tenere unita la gente e rafforzare la coesione dei gruppi sociali.
 In Occidente siamo portati a pensare alla musica come qualcosa che permette agli individui di esprimersi o mostrare il proprio talento, ma a livello globale essa tende a essere più che un fenomeno sociale. Anche qui da noi vediamo manifestazioni come i cori di chiesa o il canto degli inni nazionali. In Paesi come la Corea del Nord possiamo osservare anche esempi estremi di come la musica e la danza di massa possano essere utilizzate per unire e coordinare i gruppi. 
 I ricercatori hanno analizzato 304 registrazioni di musiche stilisticamente diverse provenienti da tutto il mondo per isolarne le caratteristiche comuni. Anche se non sono stati trovati “universali assoluti”, sono emersi invece decine di “universali statistici”, ossia caratteristiche che erano chiaramente presenti nella maggior parte dei brani esaminati. I risultati hanno mostrato che i ritmi basati su due o tre battute erano presenti nella musica di tutte le regioni del campione: Americhe, Europa, Africa, Medio Oriente, Asia meridionale, Asia orientale, Sud-Est asiatico e Oceania.
 Il primo autore, Pat Savage della Tokyo University of the Arts, ha dichiarato:

 In passato, noi occidentali credevamo che le nostre scale musicali fossero universali. Poi, quando ci siamo resi conto che le altre culture avevano idee assai diverse su scale e intervalli, molti hanno concluso che non esisteva niente di universale, che mi pare altrettanto sciocco. Ora abbiamo dimostrato che, malgrado la grande diversità in superficie, la maggior parte della musica in tutto il mondo è in realtà costruita con mattoni di base simili, come simili sono le sue funzioni, destinate principalmente ad avvicinare gli esseri umani.
 Al momento di analizzare i risultati, i ricercatori hanno combinato un nuovo modo di classificare la musica (originariamente introdotta da Alan Lomax, noto raccoglitore americano di musica) con l’analisi statistica per rivelare le caratteristiche che sono comuni in tutto il mondo.
Patrick E. Savage, Steven Brown, Emi Sakai, and Thomas E. Currie, Statistical universals reveal the structures and functions of human music, PNAS, 2015

giovedì 22 settembre 2016

"Il silenzio ha effetti positivi sulla salute del cervello". Alcune ricerche scientifiche spiegano i benefici dell'assenza di rumori




Di Ilaria Betti


 In un mondo pieno di rumori, il silenzio è d'oro. È in grado di infondere calma, di allontanare i pensieri negativi, ma non solo: secondo alcune ricerche, sarebbe in grado anche di migliorare sensibilmente la nostra vita e di avere un impatto positivo sulla salute, in particolare su quella del cervello.
 Il giornalista Daniel A. Gross ha ricostruito sul sito "Nautilus", in un articolo intitolato "This is your brain on silence", l'importanza del silenzio per gli esseri umani, riportando alla luce alcune ricerche sul tema. Che i rumori siano dannosi non è una novità: secondo uno studio del 2011 dell'Organizzazione mondiale della sanità, più di 3000 infarti ogni anno sarebbe causati proprio dall'inquinamento acustico. Già da tempo sono noti i collegamenti tra quest'ultimo e l'aumento dei disturbi del sonno e dei problemi cardiaci. I rumori infastidiscono perché le onde sonore penetrano nell'orecchio e la vibrazione viene convertita in segnali che il cervello riceve, reagendo immediatamente. Lo stato continuo d'allerta del cervello porta al rilascio di cortisolo, l'ormone dello stress: per questo motivo, le persone che vivono in ambienti molto rumorosi tenderebbero a sentirsi più agitate e ansiose del normale.
 Il silenzio sarebbe dunque da preferire, ma non solo in quanto opposto del rumore: avrebbe, al contrario, un ruolo attivo e nella nostra vita funzionerebbe come una specie di cura, con effetti tangibili. Secondo uno studio, portato avanti da Imke Kirste della Duke University, "due ore di silenzio al giorno solleciterebbero lo sviluppo cellulare nell'ippocampo, la regione del cervello collegata alla formazione della memoria". Gli scienziati sono fiduciosi: se la ricerca andrà avanti, forse si potrà scoprire un nuovo modo per trattare i pazienti che soffrono di malattie collegate alla regressione cellulare nell'ippocampo, come la depressione o la demenza.
 L'assenza di rumori giocherebbe a nostro favore anche nel calmare i nervi: un team di studiosi ha fatto notare che quando si ascolta una canzone, per quanto rilassante possa essere, a calmarci sono proprio quei due minuti di silenzio che precedono o seguono l'ascolto. Favorirebbe poi anche l'immaginazione: basti pensare a quando ascoltiamo una canzone e poi questa si interrompe improvvisamente e noi continuiamo lo stesso a cantarcela nella mente. L'apparente mancanza di input, dunque, sembra essere essa stessa un input. "La libertà dai rumori permette alla nostra coscienza di crearsi lo spazio giusto per fare le sue cose, per tessere ciò che siamo nel mondo e aiutarci a scoprire dove collocarci - spiega il giornalista -. Ecco il potere del silenzio".

mercoledì 21 settembre 2016

Meditazione e benessere psicofisico: come prepararsi alla meditazione e superare le prime difficoltà




Un ambiente tranquillo, uno stato d’animo rilassato e una posizione confortevole rappresentano le condizioni essenziali per avvicinarsi alla meditazione, pratica che migliora la concentrazione oltre a favorire l’equilibrio interno.

QUANDO MEDITARE

   Scegliete un momento della giornata in cui non siete troppo stanchi, per non rischiare di addormentarvi, ed evitate di meditare subito dopo i pasti.

DOVE MEDITARE

   Individuate un ambiente tranquillo, dove sapete di non essere disturbati: anche l’ufficio, con la porta chiusa e il telefono staccato, può andare benissimo. Se meditate al chiuso dovrete avere la cura di cambiare l’aria prima di cominciare. Meditare sempre nello stesso posto e nelle stesse ore può essere di qualche aiuto, ma non è indispensabile.

LA POSIZIONE IN CUI MEDITARE

   Potete sedervi a terra a gambe incrociate come su una sedia. L’importante è che la posizione prescelta lasci liberi di respirare in profondità, vi aiuti a mantenere eretta la colonna vertebrale, perchè possa seguire dolcemente i movimenti del respiro, e vi consenta di rimanere calmi, svegli e attenti.
   Sedendovi a terra a gambe incrociate potreste aver bisogno di mettere un cuscino sotto il coccige, per inclinare leggermente il bacino in avanti, e dei cuscini aggiuntivi sotto le ginocchia, in modo da poter mantenere la posizione senza contrarre le cosce per tutto il tempo necessario.
   Su una poltrona o su una sedia potrà essere utile non appoggiarsi allo schienale, usando solo la parte anteriore del sedile e tenendo i piedi ben appoggiati a terra.

SUPERARE LE PRIME DIFFICOLTA’ DELLA MEDITAZIONE

   Se le prime volte che meditate vi capita di provare un disagio fisico intenso, nausea, ansia o grande agitazione, restate fermi ma aprite gli occhi, guardatevi intorno per qualche minuto. Poi ricominciate a rilassarvi.
   Se, invece, nel corso della pratica, vi vengono in mente pensieri spiacevoli o emozioni dolorose, limitatevi a prenderne nota.
   Anche le lacrime che potrebbero comparire possono essere trattate come le altre sensazioni fisiche. E’ abbastanza comune che la meditazione porti a galla parti di noi delle quali non siamo consapevoli: questo può anche rappresentare un approccio positivo per cominciare ad affrontarle senza sentirci sopraffatti.

martedì 20 settembre 2016

Il cervello immaginario



di Pietro Greco
6 SETTEMBRE 2016
 Un errore sistematico durato 20 anni che mette in dubbio la validità delle conclusioni raggiunte con 40.000 lavori scientifici su come funziona il cervello umano visto attraverso la fMRI, la risonanza magnetica nucleare. Se Anders Eklund, dell’università svedese di Linköping, e i suoi due colleghi, Hans Knutsson e Thomas Nichols, autori di recente di un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Science (PNAS) degli Stati Uniti, hanno ragione, allora bisognerà riscrivere tre lustri di studi sul cervello “visto in azione”.
 La tecnica della fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging) consente di “vedere” il cervello umano in azione, misurando la differenza nei flussi di sangue. Se, per esempio, io muovo una mano, una maggiore quantità di sangue affluisce nelle zone del cervello coinvolte nell’azione. La messa a punto di questa tecnica, venti anni fa, ha rivoluzionato gli studi di neurofisiologia, perché prima, in buona sostanza, il cervello umano poteva essere studiato solo dopo la morte del suo proprietario e in fase non attiva.
 Ecco perché, da quando è stata messa a punto, l’fMRI ha trovato un’ampia applicazione nei laboratori di neurofisiologia di tutto il mondo. Determinando, appunto, la pubblicazione, in media, di quasi 2.000 articoli l’anno che – è il caso di dirlo –  ci hanno dato una nuova immagine del cervello. In realtà, la fMRI non è certo un telescopio galileiano che, puntato verso il cervello, veda davvero il sangue mentre affluire. Il sangue lo vede indirettamente, applicando un’analisi statistica alla ricerca di cluster di neuroni attivi in piccole parti del cervello. Ciò che scopre lo trasforma, poi, in immagine. Gli algoritmi principali usati nei primi venti anni di fMRI sono tre: SPM, FSL e AFNI. E, sulla carta, assicurano una precisione del 95%. In pratica significa che solo in 5 casi su 100 rilevano un “falso positivo”, ovvero afflusso di sangue anche lì dove non c’è.
 Il fatto è che la reale efficacia di questi tre algoritmi non è mai stata verificata su un gruppo statisticamente significativo di persone reali. Anche perché ogni singola analisi costa molto e mettere insieme un campione reale statisticamente significativo è particolarmente oneroso. La validazione della tecnica è così avvenuta sulla base di dati simulati al computer
 Dopo una serie di indizi sospetti, Ekland e i suoi due collaboratori hanno deciso che era venuto il momento di testarli, quei tre algoritmi, sul cervello di persone reali. Hanno così selezionato un campione di 500 volontari (499, per la precisione), tutti sani, li hanno divisi in piccoli gruppi di 20, hanno detto loro di non fare assolutamente niente (in modo da essere sicuri che molte zone specifiche del cervello fossero spente), li hanno confrontati ottenendo 3 milioni di combinazioni random e hanno trovato che i falsi positivi non sono 5, ma 70 su cento. Più di due volte su tre, dunque, la fMRI rileva un’attività cerebrale lì dove non c’è. Segnalando, magari, che si è attivata una parte del cervello responsabile del movimento degli arti, mentre la persona è perfettamente ferma.
 L’errore è tale che, se confermato, porterebbe al sostanziale discredito della gran parte dei lavori di neuroscienze basati sulla fMRI. Raramente nella storia della ricerca scientifica un errore sistematico di tipo metodologico è stato commesso da così tante persone – anzi da così tanti gruppi di ricerca sparsi per il mondo – in così tanto tempo.  Le conseguenze sono (sarebbero) davvero molte. Migliaia di ore di lavoro gettate al vento. E un’intera disciplina costretta a iniziare daccapo (in realtà, l’errore di metodo è stato corretto proprio mentre Ekland e colleghi portavano avanti il loro studio e, dal 2015, non viene più commesso).   
 Tuttavia i clamorosi risultati di Anders Eklund, Hans Knutsson e Thomas Nichols ci dicono (ci suggeriscono, in attesa che a loro volta vengano validati) molto di più. In primo luogo, che aveva ragione, tutto sommato, il buon senso dei nostri avi quando esprimeva, in un proverbio, il concetto che il risparmio eccessivo non si traduce mai in guadagno. Nella scienza non è possibile, in nome della carenza di risorse, fare salti metodologici. Il rischio di errori è altissimo. In secondo luogo, ci dicono, quei risultati, che la grande novità epistemologica degli ultimi decenni, la simulazione al computer, può essere un’utile strumento, ma non uno strumento assoluto. Detto in altri termini, la “scienza simulante” non sostituisce le galileiane “sensate esperienze”. E sono queste ultime a dover avere ancora l’ultima parola.
 Tuttavia la vicenda – che si è consumata proprio mentre al CERN hanno rilevato che la sospetta presenza del “cugino grasso” del “bosone di Higgs” nei dati raccolti per alcuni mesi, in maniera indipendente, da due gruppi di ricerca con l’acceleratore LHC era solo una fluttuazione statistica e non un dato reale – dimostra, ancora una volta, che la comunità scientifica conserva buoni anticorpi. Riesce ancora ad autocorreggersi. Un errore importante, prodotto in buona come in cattiva fede, può ingannare a lungo, ma non per sempre.

Fondamenti di Neurosociologia, il primo libro italiano di Neurosociologia di Massimo Blanco



   Il manuale è il primo testo italiano di neurosociologia, disciplina nata negli Stati Uniti agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, in seguito ad alcuni studi sull’utilizzo degli emisferi cerebrali da parte di soggetti appartenenti a differenti etnie.
Attualmente, la neurosociologia è una neuroscienza emergente che si propone di rendere applicabili le odierne conoscenze sul sistema nervoso nei campi dell’educazione, della devianza e della salutogenesi. Nel manuale vengono analizzate le strutture e le funzioni del cosiddetto “cervello sociale” in relazione all’apprendimento, al comportamento e al benessere psicofisico dell’essere umano, nonché i risvolti neurofisiologici derivanti dallo stile di vita che caratterizza l’odierna società occidentale.
   Massimo Blanco è presidente dell’Istituto di Scienze Forensi e dirige il Dipartimento di Neuroscienze Applicate alla UNISED. Inoltre, è docente a contratto di criminologia applicata all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. In qualità di libero professionista, esercita come criminologo specializzato nelle violenze di genere e nei progetti di prevenzione dei fenomeni devianti e criminali.

lunedì 19 settembre 2016

Il paese dove si vive oltre cent’anni «Fatica e sacrifici»


di Giorgio Zordan


 Mossano, il paese dei centenari. Uno studio dell’Università di Oporto, pubblicato sulla rivista inglese Journal of epidemiology and community health, ha indicato il sud est vicentino tra i luoghi più longevi di tutta Europa. E tra i paesi della zona (dati riferiti al 2015 da www.tuttaitalia.it, portale specializzato) spicca proprio il piccolo comune dei Colli Berici con un sorprendente 7 per cento della popolazione ultra 85enne (nel 2015 gli abitanti erano 1.784), staccando decisamente Orgiano, che pur vanta un notevole 4,3 per cento a sua volta seguito da Sossano (3,4 per cento), Villaga (3,3 per cento) e Campiglia dei Berici (3,2 per cento).

 CEMENTIFICAZIONE. Sarà perché qui la cementificazione non è mai arrivata ed il paesaggio ha conservato le sue antiche caratteristiche naturali continuando a restare avvolto da boschi e prati, sarà perché la quiete la fa da padrona e quando si guarda il panorama ci si butta lo stress alle spalle, sarà perché qui si sono sempre mangiati cibi genuini spesso autoprodotti ma, qualunque sia il motivo, a Mossano si vive davvero a lungo.

 A far alzare la media sicuramente la presenza del centro residenziale San Giovanni in Monte della Fondazione Opera Immacolata Concezione onlus, dove lo scorso anno è venuta a mancare la nonna d’Italia, Margherita Venzo, spentasi quando mancavano pochi giorni al traguardo delle 112 candeline; ma nella nostra provincia (la media di ultra 85enni è inferiore al 3 per cento) ci sono tanti altri comuni con case di riposo dove però raramente si supera il 4 per cento (vedi Orgiano): Vicenza ad esempio si attesta sul 3,8 per cento.

 GLI OSPITI. «Tra i nostri 152 ospiti – ha dichiarato la responsabile del centro di San Giovanni in Monte, Emanuela Bolamperti –, abbiamo ben nove ultracentenari». Ne abbiamo incontrati due cercando di carpire il segreto del loro elisir di lunga vita.
 «Non ho mai fumato – ci confida Gina, 101 anni, originaria di Vo’ Euganeo, in gioventù un passato da mondina nelle risaie di Pavia e Vercelli per poi passare a fare la casalinga a tempo pieno -. L’importante è sapersi riguardare. La mia dieta: al mattino caffè e latte, a mezzogiorno pastasciutta, la sera una minestra, ma mangio anche carne».

 PRIGIONIERO IN GRECIA. Nessun particolare segreto anche per Rino, 103 anni, nato a Villaga, scorza da alpino, che in gioventù ha dovuto fare i conti, fatto prigioniero in Grecia dopo l’8 settembre, con due anni di internamento che gli sono valsi la nomina a cavaliere, conosciuto per aver fondato a Barbarano una nota distilleria. «Anch’io non ho mai fumato. I miei passatempi? Al gioco delle carte o alla tombola preferisco leggere: sono da sempre abbonato al Giornale di Vicenza».

 VITA NEI CAMPI. Ma gli ultra 85enni non mancano anche in paese. «Mio padre ha 88 anni, mio zio 89, ed entrambi – afferma il sindaco Giorgio Fracasso –, sono attivi e continuano a seguire le loro occupazioni. Mossano conserva una vocazione agricola: viti in collina, culture in pianura anche se abbiamo una zona artigianale. Una recente statistica dice che uccide più la sedentarietà che il fumo: in passato qui la gente ha affrontato sacrifici ed ha sempre dovuto lavorare duramente, anche questa può essere una chiave di lettura sulla longevità del posto».
A Mossano non poteva mancare anche il bar centenario. Con la bella stagione è meta dei turisti della gita fuori porta, ma durante tutto l’anno il bar “Dalla Maria”, dal nome della titolare che lo ha ereditato dal padre e che ancor prima era stato fondato dal nonno, è il ritrovo di chi ha una certa età. «Una presenza - racconta Maria assieme al marito Luciano -, si può dire quotidiana, in particolare al pomeriggio per una partita di carte».
 Nel paese che fu di Margherita Venzo tutto scorre lentamente, nella mattinata il silenzio regna sovrano nel piccolo centro dei colli Berici, non c’è un’anima viva. «Il mondo si accende nel pomeriggio - spiega un residente - gli anziani stanno in casa a riposare».

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