giovedì 24 novembre 2016

I manager a lezione in convento


di NICOLA PINNA

 I manager si presentano chiassosi all’ora dei vespri, qualcuno è appena uscito dall’ufficio. Arrivano uno dopo l’altro, disorientati e trafelati, tutti con la valigia in mano e la suoneria del telefonino a tutto volume. Ma al tramonto i monaci pregano e nel monastero bisogna entrare senza disturbare, rispettando rigorosamente la consegna del silenzio. «Questo è il momento più importante delle nostre lezioni - dice padre Gianni -. Il silenzio significa ascolto. Sia chiaro: prima di comandare è indispensabile saper ascoltare. Bravi dirigenti si diventa solo così e noi è tutto ciò che cerchiamo di spiegare». Nei programmi dei soliti master, le sessioni di meditazione non sono previste, ma questo è un corso di alto livello per diventare «manager di Dio». 

 La business school della meditazione si svolge all’interno di un’abbazia e le lezioni le impartiscono i benedettini. La cura delle anime, dunque, si può applicare alla gestione di un’azienda? Ci credono diverse aziende italiane, che hanno iscritto i propri dirigenti alla «scuola di leadership» organizzata nell’antico complesso di San Pietro di Sorres, in un angolo verde (e in questi giorni ventoso) della provincia di Sassari. Nel silenzio delle campagne di Borutta, i dirigenti che non si accontentano dei tradizionali corsi di formazione provano per tutto il fine settimana ad apprendere i principi della regola benedettina. 

 Il caos dell’ufficio qui potrà essere dimenticato. Per più di 48 ore niente cellulare e niente computer: al bando mail, notifiche e conference call. «L’insegnamento di San Benedetto può essere prezioso per chi vuole amministrare e far crescere una società - spiega padre Gianni -. Una delle regole fondamentali è quella sulla valorizzazione delle competenze e delle attitudini del prossimo. Dei dipendenti, nel caso di un amministratore aziendale». I monaci benedettini si sono ritirati in questa antica abbazia nel 1955. Ma non vivono ai margini del mondo moderno. «Semmai, sono custodi di una lezione che ha dimostrato la sua efficacia nei secoli: la regola benedettina è una lezione sperimentata, validata dalla storia», sostiene Rocco Meloni, titolare di una società di formazione con sede in Ogliastra che da 30 anni organizza corsi per le aziende di mezza Italia. «I manager moderni dimenticano i principi dell’economia di comunione - aggiunge padre Gianni -. Cosa dovrebbero fare? Per esempio dividere gli introiti con i lavoratori e collaborare lealmente con le altre aziende»

 Al master dei monaci non ci sono slide: né sessioni di training, né stage conclusivi. Il coffee break è l’unica concessione ai tempi e ai linguaggi moderni. Per il resto, il programma è scandito da momenti precisi: le presentazioni, i seminari, il lavoro manuale e la meditazione. Celebrazioni liturgiche e letture spirituali chiaramente non potevano mancano, ma questi non sono tre giorni di catechismo. «La regola benedettina è composta da 73 articoli e solo i primi riguardano la vita religiosa - precisa l’organizzatore del seminario -. Tutti gli altri sono dedicati all’organizzazione del lavoro»

 Le aziende che hanno mandato in ritiro i dirigenti hanno chiesto massima riservatezza. E i monaci ovviamente la rispettano. Ma prima della cena qualcuno sfugge alla consegna del silenzio. Antonello Bosa, per esempio, è dipendente di una catena di negozi di elettronica con 160 punti vendita in tutta Italia: «Per noi è un esperimento, vogliamo vedere se possiamo migliorare qui le competenze dei nostri dirigenti». In classe c’è anche qualche funzionario pubblico, il dirigente di un liceo classico e il rappresentante di una grande compagnia telefonica: «Non ci convincono le lezioni dei tanti guru che scrivono libri e pensano di cambiare la storia e l’economia»

martedì 22 novembre 2016

Gli scienziati possono cancellare paure specifiche dal cervello


La paura è un'emozione difficile da valicare, ma una squadra di ricercatori potrebbe aver appena inventato il modo per vincere la paura.


 La paura è un'emozione notoriamente difficile da superare, ma un team di ricercatori potrebbe aver appena inventato il collegamento perfetto per vincere la paura, senza mai doverla affrontare. Manipolando l'attività cerebrale di un gruppo di partecipanti, gli scienziati sono stati in grado di creare e poi cancellare una risposta di paura condizionata, senza che i loro soggetti fossero consapevoli di ciò che stava accadendo. Allo stato attuale, l'unico modo sicuro per superare le proprie fobie, ansie, trepidazioni è quello di affrontarli a testa alta. Quando ha successo, questo approccio può essere un'esperienza esaltante, ma può anche causare una grande quantità di disagio.

 Tuttavia, utilizzando una tecnica chiamata neurofeedback, i ricercatori sono riusciti a bypassare tutta questa sgradevolezza, eliminando paure specifiche utilizzando la potenza delle neuroscienze. In primo luogo, hanno inserito una risposta di paura condizionata in 17 volontari sottoponendo loro a scosse elettriche scomode ma tollerabili ogni volta che vedevano una particolare immagine su uno schermo. Si sono concentrati sulle regioni cerebrali come l'amigdala e la corteccia prefrontale ventrocentrale, entrambe le quali sono fortemente coinvolte nella codifica di ricordi di paura. Lo studio ha rivelato come questo approccio ha permesso loro di identificare i modelli specifici di attività cerebrale che corrispondeva a questa paura appena condizionata. Hanno quindi impostato di cercare di cancellarlo sovrascrivendo questi schemi neurali.

I risultati dello studio sulla paura

 I ricercatori hanno poi mostrato i risultati ai loro soggetti e gli stimoli visivi che erano stati precedentemente associati con le scosse elettriche, ed hanno scoperto che i modelli di paura connessi all'attività cerebrale non erano più presenti. "Questo significava che saremmo stati in grado di ridurre la sensazione di paura ai volontari non consapevoli di questa sperimentazione", dice il dottore Koizumi,scienziato co-autore del progetto. 

sabato 19 novembre 2016

Lo zen «modifica» il cervello e fa sopportare il dolore


STUDIO CANADESE - La meditazione, producendo un ispessimento della corteccia cerebrale, aiuta a non sentire il dolore.

di Antonino Michienzi

 MILANO - La meditazione zen cambia la struttura della corteccia cerebrale, al punto da rendere chi la pratica meno sensibile al dolore. È il risultato di uno studio pubblicato su Emotion, una delle riviste dell’American Psychological Association. A condurre gli esperimenti, un gruppo di ricercatori dell’Università di Montreal guidato dal dottorando Joshua A. Grant. Il team ha valutato la sensibilità al dolore causato da una sorgente di calore in 17 cultori dell’antica pratica orientale e 18 persone che non l’avevano mai praticata. Il passo successivo è stata l’analisi della struttura del cervello dei due gruppi con la risonanza magnetica. Oltre a una maggiore capacità di sopportazione in quanti praticavano la meditazione, «abbiamo scoperto una relazione tra lo spessore di alcune aree della corteccia cerebrale e la sensibilità al dolore. Chi si dedicava a questa pratica, in particolare, aveva un maggiore spessore nella corteccia cingolata anteriore dorsale e nella corteccia somatosensoriale secondaria», ha illustrato Grant, che già in un precedente studio aveva analizzato la capacità di sopportare il dolore di adepti zen con più di mille ore di pratica. Era emerso che, mediamente, tolleravano una temperatura di 53 gradi Celsius sulla pelle, con una riduzione della sensibilità del 18 per cento rispetto alla popolazione generale.

 IL DOLORE «MODIFICA» IL CERVELLO - I ricercatori si dicono per nulla stupiti della scoperta. «Le posture spesso dolorose associate con la meditazione - ha commentato il dottorando canadese - possono produrre a lungo andare un ispessimento della corteccia e ciò potrebbe ridurre la sensibilità al dolore». La meditazione, infatti, a dispetto delle apparenze, comporta un intenso sforzo di sopportazione per mantenere per lunghi periodi di tempo la postura corretta. Ciò a lungo andare potrebbe indurre una sorta di adattamento del cervello. Né è l’unico caso in cui una condizione dolorosa si associa a cambiamenti strutturali della corteccia cerebrale: da tempo i ricercatori hanno per esempio osservato cambiamenti nel suo spessore nelle persone affette da emicrania. Ma non è questa l’unica ragione per cui chi medita sente meno il dolore. La meditazione comporta infatti un rallentamento della respirazione: 12 respiri al minuto - è stato osservato dai ricercatori - rispetto ai 15 degli altri. «Ridurre la frequenza del respiro - ha dichiarato Grant - inducendo un rilassamento del corpo produce indubbiamente una riduzione del dolore».

 ZEN TERAPEUTICO? - Visti i risultati, secondo il team, si potrebbe pensare di impiegare le pratiche di meditazione come strumenti utili non soltanto nella gestione del dolore, ma anche per prevenire la normale perdita di materia grigia associata all’età o qualunque condizione in cui sia compromessa. Tuttavia, viste le deboli prove scientifiche e il dolore che può comportare star seduti per ore a gambe incrociate e con la schiena dritta, è difficile che qualche medico decida di prescrivere la meditazione zen come analgesico.


venerdì 18 novembre 2016

Quando il benessere entra in azienda: 5 casi virtuosi italiani


Un lavoratore equilibrato, soddisfatto e sano è un lavoratore che produce di più. E questo, gli imprenditori lo sanno



 Se sempre più aziende manifestano interesse nei confronti della salute dei loro dipendenti, un motivo ci sarà. A fare scuola sono state le grandi multinazionali americane come Google dove, da molto tempo ormai, il welfare aziendale (inteso come insieme di benefit e servizi tesi a migliorare e agevolare la vita dei dipendenti) funziona a pieno regime. E’ una tendenza che sta prendendo piede anche da noi, su iniziativa di alcuni imprenditori “illuminati”che hanno scoperto l’importanza di avere, alle loro dipendenze, lavoratori in forma e in salute. Che garantiscono prestazioni professionali più elevate. Quando il benessere entra in azienda, i risultati non possono che essere soddisfacenti. Come dimostra questa breve rassegna di 5 casi virtuosi italiani.

 Parliamoci chiaro: spronare un lavoratore a mangiare sano o a prendersi cura della sua salute psico-fisica non è – solo – roba da filantropi o da salutisti. Ma da imprenditori avveduti, che comprendono la convenienza di scommettere su risorse che stanno e vivono bene. Il lavoratore che ha la possibilità di allenarsi nella palestra dell’azienda o di seguire un corretto regime alimentare, quando va a mensa con i colleghi, è un lavoratore destinato a stare meglio col proprio corpo e con la propria mente. E che, tornato a sedersi alla scrivania, è portato a produrre di più. A tutto beneficio della “salute” dell’azienda i cui profitti non possono che salire. Ma quali sono le aziende che, in Italia, hanno deciso di puntare sul benessere dei loro dipendenti?

Cinque aziende che curano il benessere dei lavoratori

 #1. La Sas di Milano è un’azienda specializzata nello sviluppo di tecnologie informatiche e di software il cui management ha (ben)pensato di promuovere un progetto che prevede la sponsorizzazione di “sane abitudini”. Che prevede l’utilizzo della palestra aziendale (con attrezzature studiate per correggere la postura dei dipendenti che restano troppo a lungo seduti al loro desk) e la possibilità di consultare un nutrizionista (dietro un contributo di 60 euro all’anno) in grado di istruire sulla dieta da seguire per recuperare il peso forma e sentirsi meglio.

 #2. E non poteva certo essere il gruppo Technogym (con sede a Cesena) – leader nel settore del fitness e del wellness – a dimostrare indifferenza nei confronti dei suoi dipendenti. Che hanno, infatti, la possibilità di frequentare un vero e proprio centro benessere (attrezzato di tutto punto) con tanto di consulenti e personal trainer a loro completa disposizione. Non solo: l’azienda è fermamente convinta che la salute (e la produttività) dei suoi lavoratori passi anche da quello che mangiano e propone menu aziendali realizzati con cibi freschi e sani, poveri di sale e di grassi saturi.

 #3. C’è poi la nuova sede dell’American Express di Roma (inaugurata poco più di un anno fa) che si è fatta notare da subito. Perché? Perché accoglie i suoi dipendenti in una struttura avveniristica studiata per favorire la loro socializzazione e collaborazione: le aree attrezzate di divani o di tavoli dove è possibile organizzare mini riunioni non mancano. Così come non manca la palestra aziendale dove i dipendenti possono “scaricarsi”, a conclusione di una giornata di lavoro, dedicando un po’ di tempo alla cura di loro stessi.

 #4. Il benessere è entrato anche nell’azienda farmaceutica Eli Lilly di Sesto Fiorentino, specializzata nella produzione di insulina (e non solo). Dopo un periodo di grande difficoltà (durante il quale ha rischiato di chiudere i battenti, per via della crisi), l’azienda ha recuperato alla grande imponendosi come vero e proprio modello di ricerca e di produzione in tutto il mondo. Non solo: la Ely Lilly ha anche ricevuto un importante riconoscimento come azienda “women friendly”, attenta a valorizzare tanto i talenti maschili quanto quelli femminili. Che possono, tra l’altro, usufruire di una palestra aziendale per allenare i muscoli del corpo e della mente.

 #5. E non potevamo non chiudere con il caso della Fernet Branca, la storica distilleria di Milano che ha portato lo yoga in azienda. A volerlo è stato il presidente ed amministratore delegato, Niccolò Branca, che pratica da anni la meditazione. “Ho ritenuto importante offrire a tutti i dipendenti della Fratelli Branca Distillerie l’opportunità di partecipare a un programma annuale di training basato su strumenti di Yoga Coaching – ha detto – Il fine ultimo è quello di supportarli nella gestione quotidiana delle sfide legate al proprio ruolo professionale e alla vita privata”. Ma come lo yoga può accrescere il benessere dei lavoratori? “In una società complessa come la nostra – ha spiegato Niccolò Branca – la sfida sta proprio nel riuscire ad applicare la consapevolezza, sviluppata grazie alla meditazione, per creare un profitto che abbia come suo fondamento e corollario la felicità e il miglioramento delle condizioni di vita di tutte le persone coinvolte nel processo produttivo”. In pratica: la meditazione, che accresce la consapevolezza, rende i lavoratori più felici, equilibrati, focalizzati su se stessi e dunque produttivi.

Scoperta italiana choc: "Dna 'alieno' in un malato di leucemia acuta su 2"


Studio Niguarda-Statale Milano svela sequenza misteriosa e apre a nuove prospettive di cura

 C'è del Dna 'alieno' nelle cellule cancerose di oltre la metà dei malati di leucemia mieloide acuta, una famiglia di tumori del sangue che solo in Italia fa registrare ogni anno 2 mila nuovi casi. La scoperta, di quelle probabilmente destinate a cambiare la storia della medicina oncoematologica, è tutta italiana - milanese - e appare oggi su 'Scientific Reports', rivista del gruppo Nature.

 Uno studio che ha portato a conclusioni inedite e inaspettate. "Scioccanti" a detta degli stessi autori che nelle cellule neoplastiche del 56% dei pazienti analizzati, 125 adulti in trattamento all'ospedale Niguarda di Milano, si sono trovati davanti a un sorprendente intruso: "Una sequenza nucleotidica che non ha corrispondenza in nessuna delle sequenze umane finora conosciute", spiega all'AdnKronos Salute Roberto Cairoli, direttore dell'Ematologia dell'Asst meneghina, coordinatore del lavoro insieme ad Alessandro Beghini del Dipartimento di scienze della salute dell'università Statale del capoluogo lombardo.

 "Non ci ho dormito la notte - confessa lo scienziato - Abbiamo sottoposto il lavoro il 1 giugno e la pubblicazione è arrivata oggi, dopo verifiche approfonditissime da parte di referee internazionali". La sequenza misteriosa 'abita' nel gene che codifica per una proteina chiamata WNT10B, sovraespressa nella cellula leucemica. Per capire "da dove viene, come ci arriva e chi ce la porta" si aprono "diverse ipotesi ancora tutte da esplorare", precisa Cairoli. Mauna delle piste da seguire è quella microbiologica: un virus o un batterio, di certo un organismo non umano.

 Cairoli ripercorre la storia che ha portato al sorprendente risultato. "In un primo momento - racconta l'ematologo, responsabile della parte clinica del lavoro, diretto da Beghini per la parte accademica - abbiamo visto che le cellule leucemiche sovraesprimevano WNT10B". Già in uno studio di 4 anni fa, sempre a firma delle 2 équipe milanesi, si era osservato che la proliferazione cellulare incontrollata, tipica dei meccanismi tumorali, presentava un'iper-espressione della stessa proteina. "E siccome dietro una proteina c'è sempre un gene che la codifica - ricorda Cairoli - ci siamo focalizzati sulla corrispondente porzione di Dna".

 In altre parole "siamo andati a ritroso - sottolineano Cairoli e Beghini - chiedendoci chi impartisse l'ordine in grado di attivare un loop autoproliferativo senza interruzione. Grazie a una serie di tecniche di biologia molecolare molto avanzate, usate solo in pochi centri a livello mondiale, siamo quindi riusciti a identificare una variante dell'oncogene WNT10B e lo abbiamo studiato". Un'opera 'certosina' che si è avvalsa del "prezioso contributo" di Francesca Lazzaroni, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze della salute dell'università degli Studi di Milano, e di Luca Del Giacco, ricercatore del Dipartimento di bioscienze dell'ateneo.

 Ed ecco spuntare "l'intruso": nell'area 'interruttore', cioè quella che regola l'accensione o lo spegnimento del gene, è stata individuata una sequenza di nucleotidi (i 'mattoni' che compongono il Dna) che sicuramente non è di origine umana. "In questo - puntualizzano i ricercatori - ha giocato un ruolo fondamentale anche l'uso di sequenziatori automatici diciamo un po' 'vintage'. E' stata la nostra fortuna, perché i macchinari di ultima generazione avrebbero scartato le sequenze non umane in automatico senza neppure analizzarle".

 "Il confronto con tutti i database delle sequenze nucleotidiche umane non ha prodotto alcuna corrispondenza con la sequenza misteriosa riscontrata - prosegue Cairoli - Abbiamo dunque a che fare con una sequenza aliena inserita in un Dna umano". La scoperta è "importantissima", assicurano gli scienziati, pur non nascondendo "perplessità e qualche paura" per il lavoro ciclopico che si apre: "Negli anni a venire - evidenziano - servirà tutta una serie di approfondimenti per risalire alla specie a cui appartiene questa sequenza nucleotidica". Un 'corpo estraneo' in cerca di identikit, un 'oggetto non identificato' al quale va dato un nome.

 La fase di matching, ossia di confronto con tutte le sequenze non umane note, sarà molto complessa e "richiederà necessariamente la collaborazione con enti di ricerca internazionali che mettano a disposizione banche di Dna non umano molto vaste". Un'impresa ancora più cruciale considerando un'altra correlazione trovata dal team meneghino: la stessa alterazione genetica si riscontra anche in alcune cellule di cancro del seno. In questo senso "le evidenze sono al momento meno approfondite", ma si tratta di un input di ricerca che potrebbe delineare "novità importanti" anche per il 'big killer in rosa'.

 Nel frattempo, tra le corsie di Niguarda e i corridoi della Statale le ricadute della scoperta sul trattamento della leucemia mieloide acuta sono ritenute "promettenti": si è infatti identificato all'interno del gene WNT10B delle cellule leucemiche "un nuovo target per lo sviluppo di nuove, future terapie intelligenti a bersaglio molecolare". Per Cairoli "il sogno è impedire 'il matrimonio con l'alieno', ovvero fare in modo che la cellula sana non subisca la perturbazione di questa sequenza nucleotidica anomala". Oppure, se le 'nozze' avvengono, "cercare di limitarne il più possibile i danni".

 Lo studio 'made in Milano' è un esempio vincente di ricerca italiana pubblica e indipendente. "Un lavoro completamente autofinanziato - tengono a dire da ospedale e ateneo - possibile anche grazie al sostegno del volontariato": dell'Associazione malattie del sangue di Milano - fondata e presieduta dalla storica primaria ematologa di Niguarda Enrica Morra, "mamma scientifica" di Cairoli che ne ha ereditato il timone alla guida del reparto - e dell'associazione Cho-Como Hematology and Oncology, fondata dallo stesso Cairoli nei suoi anni di primario all'ospedale Valduce.

 Le leucemie mieloidi acute sono malattie con una prevalenza di casi maschile e un picco di insorgenza dopo i 60 anni. "Considerandole in tutti i tipi, in ogni fascia d'età - stima Cairoli - possiamo dire che oggi curiamo bene circa il 40-45% dei pazienti. Questo però vuol dire che, a seconda dell'età e del tipo di leucemia, ci sono malati con una probabilità di cura del 90-95% e altri con appena il 10-15% di chance". E' soprattutto per questi ultimi che si auspicano ulteriori progressi, in una branca della medicina - l'oncoematologia - che ha potuto vantare negli ultimi decenni successi fra i più grandi e insospettabili in passato.

 A far sperare in un impatto positivo del nuovo lavoro c'è infine un ultimo elemento: "I pazienti che presentano la sequenza genetica aliena - conclude Cairoli - non sono quelli a prognosi migliore, né quelli in cui il tumore è secondario a chemio o a radioterapia". Potrebbero essere loro, i malati più 'difficili', a beneficiare maggiormente di questa scoperta al 100% tricolore.

giovedì 17 novembre 2016

Contro il raffreddore basta meditare


Secondo uno studio americano la pratica della meditazione, quotidiana e protratta nel tempo, servirebbe ad aumentare le difese dell'organismo nei confronti delle infezioni respiratorie acute. E c'è chi già si spinge a dire che potrebbe essere più efficace del vaccino anti-influenzale

 Starnuto in arrivo? Meditate gente, meditate.... Non è la nuova versione del vecchio slogan lanciato da Renzo Arbore: la meditazione può davvero prevenire malanni di stagione come raffreddore o influenza. O meglio ridurne incidenza, durata e intensità, in percentuali che variano tra il 30 e il 60 per cento.

 E' quanto emerge da uno studio appena pubblicato sugli "Annals of Family Medicine", secondo il quale la meditazione mindfulness - una pratica della consapevolezza basata sull'ascolto del respiro e del proprio corpo, e sull'attenzione al momento presente - servirebbe ad aumentare le difese dell'organismo nei confronti delle infezioni respiratorie acute, riducendole di durata e intensità.
 La ricerca, realizzata presso l'università del Wisconsin grazie a un finanziamento dei National Institutes of Health, ha coinvolto 150 ultracinquantenni, in maggioranza donne: un terzo del gruppo ha seguito quotidianamente per otto settimane la pratica meditativa, un altro terzo ha intrapreso programma di esercizio fisico, mentre il gruppo rimanente è servito di controllo.

 Lo studio si è protratto per otto mesi, durante i quali il gruppo di meditanti ha complessivamente registrato 27 giorni di malattia contro i 26 degli sportivi e i 70 del gruppo di controllo, ma solo 16 giorni di lavoro persi, contro i rispettivi 32 e 67 degli altri due gruppi. Si tratta indubbiamente di dati preliminari ma già significativi dal punto di vista statistico: «Se questi risultati saranno confermati», ha commentato il responsabile dello studio Bruce Barrett: «La meditazione potrebbe risultare più efficace del vaccino anti-influenzale».

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mercoledì 16 novembre 2016

Per ridurre lo stress basta meditare per pochi minuti


Anche se i livelli di cortisolo rimangono alti la tensione percepita è minore

di Silvia Soligon 


 Per ridurre lo stress basta meditare per 25 minuti. A svelarlo è uno studio pubblicato su Psychoneuroendocrinology da un gruppo di ricercatori della statunitense Carnegie Mellon University guidato dallo psicologo David Creswell, che per la prima volta ha dimostrato che basta praticare per pochi minuti la mindfulness meditation, un'antica pratica buddista focalizzata sulla consapevolezza del momento presente, per contrastare efficacemente lo stress.

 Lo studio di Creswell e colleghi ha previsto di dividere i 66 volontari che vi hanno partecipato – tutti di età compresa tra i 18 e i 30 anni – in due gruppi. Al primo è stato chiesto di partecipare per 3 giorni a sessioni di mindfulness meditation da 25 minuti. Al secondo è invece stato chiesto di analizzare delle poesie per migliorare le capacità di risolvere i problemi. Al termine dei 3 giorni di allenamento a tutti i partecipanti è stato chiesto di partecipare, in presenza di esaminatori, a test per valutare le capacità linguistiche e matematiche. L'analisi dei livelli salivari di cortisolo ha permesso di scoprire che chi si era preparato ai test con la mindfulness meditation aveva livelli di marcatori dello stress ancora elevati, ma si sentiva meno stressato rispetto agli altri partecipanti.

 “All'inizio quando si imparano le tecniche di mindfulness meditation bisogna lavorarci sopra dal punto di vista cognitivo, soprattutto durante compiti stressanti – spiega Creswell – e questi sforzi cognitivi attivi possono far risultare il compito meno stressante, ma possono avere anche un costo fisiologico in termini di produzione di livelli più elevati di cortisolo”. Ora i ricercatori vogliono capire in che modo la consapevolezza potrebbe diventare una risposta più automatica, in modo che anche i livelli di cortisolo vadano a ridursi.

martedì 15 novembre 2016

Il walking è la nuova moda



 La corsa? È out. L’ultima passione degli italiani è il walking. Si fa in città o lungo sentieri extraurbani. E camminare piace così tanto che a Milano il 5 e 6 novembre si festeggia il primo Walking day

di Paola Oriunno

 Basta chilometri di running all’alba, estenuanti sessioni di allenamento e faticose mezze maratone. Il ritmo dello sport sta diventando lento e ha un nuovo nome:walking. Un’attività fisica e mentale da fare in città o lungo percorsi extraurbani. Sono già migliaia le persone che si avventurano su sentieri, alte vie alpine e tratturi italiani. Nel 2015, in 10.000 hanno fatto tappa ad Assisi percorrendo il Cammino Francescano. La Via Francigena, che nel Medioevo univa l’inglese Canterbury alla Puglia, ha registrato 7.000 passaggi. 

Il walking allena mente e corpo

 II boom del walking non è passato inosservato al ministero per i Beni culturali, che ha decretato il 2016 Anno nazionale dei cammini. E a Milano il 5 e 6 novembre ci sarà il Walking day, due giornate con allenamenti alla portata di tutti (walkingday.it). «La molla che spinge una persona a camminare per un’ora nel parco pubblico o per giorni interi lungo i sentieri di campagna è il desiderio di non avere limiti intorno a sé: tetti, muri, spazi chiusi che soffocano e bloccano pensieri ed energie» spiega la walking coach Sabrina Zanino. «Uscire di casa o dall’ufficio e andare con lo zaino in spalla diventa una forma di meditazione, un gesto lento, ipnotico e ripetitivo che regala lucidità e creatività». Inoltre, è un allenamento cardio a tutti gli effetti: secondo l’Istituto auxologico italiano, abbassa i livelli di colesterolo Ldl (cattivo), aumenta i livelli di colesterolo Hdl (buono), aiuta a controllare l’ipertensione, ed è l’ideale per la prevenzione delle malattie cardiache. 

Il walking conquista le celebrità

 Sulla collina di Runyon canyon park, a Los Angeles, è ormai diventato facilissimo scorgere dive come Amanda Seyfried, Natalie Portman, Ellie Goulding impegnate nel fitwalking, una camminata a passo spedito. Ma anche in Italia sono in crescita i trekking urbani e i gruppi di walker. Secondo un’indagine Doxa, parchi, giardini e strade cittadine sono particolarmente apprezzati dal 53% delle donne che fanno attività fisica. E la camminata veloce è amata dai cosiddetti “sedentari in movimento” che non fanno sport regolarmente ma sono attenti al proprio benessere. Insieme ai fan, crescono anche le offerte: oltre ai percorsi spirituali, ai nordic e urban trekking sono nate nuove discipline che hanno come filo conduttore il passo lento. Dal deep walking, in cui si sperimentano pratiche di meditazione, momenti di lettura condivisa ed esercizi di Qi Gong (www.deepwalking.org), al barefooting, camminate a piedi nudi in mezzo alla natura per riattivare la circolazione.

Il walking piace soprattutto alle donne

 «Nei gruppi che accompagno c’è sempre una prevalenza femminile e l’età varia tra i 45 e i 65 anni» spiega Roberta Ferraris, guida della Compagnia dei cammini (www.cammini.eu) e autrice di libri sul tema come Il sentiero e l’altrove. L’Italia in cammino (Ediciclo). «Le donne si sentono rassicurate dal gruppo e amano il ritmo lento, meditativo, di questa attività». Roberta ha percorso tutta la Via Francigena in bici e alcuni tratti a piedi: ha fatto 6.000 chilometri in 8 mesi e il periplo della Sardegna in tenda per 2 mesi e mezzo.

 Ma sono tante le appassionate che hanno trasformato questa disciplina in una ragione di vita o in un mezzo per lanciare un messaggio. Come le 10 le donne colpite da tumore e supportate dall’associazione Anastasis di Adro (Brescia) che hanno affrontato gli ultimi 120 chilometri del Cammino di Santiago passo dopo passo per sfidare la malattia (www.associazione anastasis.it). «Volevamo dimostrare che, nonostante la sofferenza, si deve scegliere di vivere» dice Annarita Piccioli, presidente dell’associazione. 

Il walking aiuta a liberarsi dalle zavorre

 Tra i pregi del walking c’è la facilità con cui si può praticarlo: i medici consigliano di camminare almeno 30 minuti al giorno, ma per chi vuole cimentarsi in percorsi più impegnativi il consiglio è di partire dalla preparazione dello zaino. «Ha un significato strategico» dice la walking coach Sabrina Zanino. «Porti con te l’essenziale, scegli quello che ti serve davvero, ti liberi di zavorre inutili. E una volta a casa, replichi nel quotidiano quel modello di vita e di benessere. Il cammino, un passo alla volta, diventa una nuova strategia di sopravvivenza. È come un clic che scatta: dopo non sei più la stessa».

Chi sono i walker?

 Secondo un’indagine del Touring Club Italiano, tra le motivazioni che spingono ad affrontare un cammino la spinta religiosa è valida solo per il 10% degli intervistati. Il 22% si muove per interessi culturali, il 17% lo fa per provare un’esperienza lontana dal turismo di massa, il 13% ha bisogno di staccare dalla routine e il 12% di sfidare se stesso.

Alzheimer: il morbo non ha inizio dove si pensava


Recente studio individua la reale zona del cervello da cui il morbo di Alzheimer si diffonde.

 Una zona profonda del cervello, denominata prosencefalo basale (colorata in viola nella figura), mostrerebbe segni di degenerazione prima della comparsa dei sintomi e dei segni del morbo di Alzheimer. È quanto emerge da una ricerca pubblicata su Nature Communications da un gruppo internazionale di ricercatori guidati dai neuroscienziati della prestigiosa Cornell University di Ithaca, negli USA, che mette in dubbio e fa progredire le conoscenze sull'insorgenza e la progressione del morbo.

Dove ha inizio il morbo di Alzheimer?

 Il morbo di Alzheimer pone diverse domande di tipo medico e scientifico a cui neuroscienziati e neurologi cercano di rispondere con sforzi crescenti. Tra di esse, una delle più rilevanti riguarda i meccanismi, le modalità e i tempi di diffusione della degenerazione dei neuroni tipica del morbo.

 I dati raccolti finora lasciano pensare che la degenerazione dei neuroni si diffonda da una regione circoscritta al resto del cervello attraverso le sinapsi con modalità che ricordano la diffusione di una malattia infettiva. Ad oggi, l'ipotesi più accreditata è che il processo di diffusione del morbo di Alzheimer abbia inizio nella corteccia entorinale, un'area della corteccia cerebrale del lobo temporale che rappresenta il principale canale attraverso cui l'ippocampo riceve informazioni per generare e conservare i ricordi.

Sapere dove ha inizio il morbo di Alzheimer per fermarlo

 "Abbiamo analizzato immagini ad alta definizione del cervello di più di 400 persone sane, con diversi gradi di demenza e in stadi più o meno avanzati della malattia" spiega Nathan Spreng, ricercatore alla Cornell University e coautore dello studio "ottenute grazie alla risonanza magnetica e raccolte nel gigantesco database pubblico della Alzheimer’s Disease Neuroimaging Initiative coordinata dall'Università della California a San Francisco".

 I risultati delle analisi indicano che la degenerazione strutturale del prosencefalo basale, un'area del cervello ricca di neuroni che producono acetilcolina, precede la degenerazione di altre aree cerebrali, compresa la corteccia entorinale del lobo temporale.

 "Inoltre, abbiamo rilevato che la degenerazione del prosencefalo basale" spiega ancora Nathan Spreng "può essere presente anche in persone che non mostrano ancora i segni della malattia ma che presentano livelli anomali di proteina beta-aimolide, il principale costituente delle famigerate placche amiloidi, nel liquor, il liquido che avvolge il cervello e il midollo spinale".

 Sebbene i ricercatori americani sconsiglino l'effettuazione di test di screening che associno il livello di proteina beta-amiloide, test che potrebbero ingenerare un inutile e dannoso stato di ansia, essi sono ottimisti circa i loro risultati. "Infatti" conclude Nathan Spreng "aver chiarito dove insorge questo morbo devastante può portare più rapidamente a sviluppare trattamenti per bloccare la diffusione al resto del cervello".

lunedì 14 novembre 2016

Le ragazze, hanno più possibilità dei ragazzi di soffrire di stress post traumatico


 Roma – Lo stress post traumatico, essendo un disturbo che può colpire chiunque abbia affrontato un avvenimento traumatico, non colpisce esclusivamente gli adulti, ma anche i ragazzi. Ma perché tende ad essere più presente nelle ragazze, che nei ragazzi? Di solito, coloro che soffrono di stress post traumatico sono assillati dal ricordo dell’evento traumatico occorso, evitano di andare in determinati posti che gli ricordano l’accaduto e molto spesso fanno fatica a concentrarsi e addormentarsi. Tendono per questo, a diventare persone solitarie e ritirate. Pur essendo lo stress post traumatico associato ai militari, ai veterani di guerra o ai giocatori di sport che richiedono contatto, questo disordine potrebbe interessare anche giovani ragazzi e ragazze.

 Lo studio, che ha analizzato il cervello di 59 giovani pazienti maschi e femmine, di età compresa tra i 9 e i 17 anni, ha riscontrato varie differenze tra cervello maschile e femminile. Dei 59 analizzati, 14 ragazze e 16 ragazzi avevano affrontato almeno un evento traumatico nella loro vita, il restante dei ragazzi nemmeno uno. Durante lo studio, le differenze maggiori sono state scoperte all’interno dell’insula, una parte del cervello responsabile dell’esperienza interpersonale, delle funzioni cognitive, del controllo motorio e dell’omeostasi corporea. “Sembra che l’insula, occupi un ruolo chiave nello sviluppo dello stress post traumatico", ha detto il Professore di psichiatria presso la Stenford e autore dello studio, Victor Carrion.

 “Le differenze che abbiamo riscontrato nei cervelli maschili e femminili affetti da questo disturbo, potrebbero essere molto utili per spiegare come vari trauma e disturbi, affliggono in maniera diversa il cervello maschile e femminile”. Secondo le ultime ricerche, le ragazze affette da stress post traumatico presentano una corteccia insulare più piccola rispetto a quella dei ragazzi affetti dallo stesso disturbo. Durante l’esperimento infatti, gli scienziati hanno scannerizzato i cervelli dei ragazzi e hanno scoperto un cambiamento nel volume dell’insula delle ragazze facenti parte del ‘gruppo dei traumatizzati’. Un’altra dottoressa, anch’essa autrice dello studio, Megan Klabunde, ha affermato: ”Le nostre scoperte, suggeriscono la possibilità che il cervello maschile e femminile risponda in maniera diversa ad una situazione di stress post traumatico e che quindi maschi e femmine, necessitino di cure diverse”.


venerdì 11 novembre 2016

La meditazione zen contro stress e dolore



 La meditazione è un’antichissima pratica che dall’Oriente si è diffusa nel mondo occidentale come mezzo di indagine spirituale, come rimedio dolce allo stress e come occasione di pausa, relax, con cui rallentare ritmi di vita incalzanti. Oggi però questa tecnica ha rivelato concreti effetti positivi sul benessere fisico oltre che su quello spirituale. L’ultima dimostrazione arriva da una ricerca dell’Università di Montreal: meditare aiuta a sentire meno il dolore, quasi come un analgesico naturale.

 Le regole della meditazione zen sono poche: sedere con la schiena dritta, prendere coscienza del proprio corpo e del proprio respiro, rimanere attenti, prendendo atto di tutto ciò che accade dentro e fuori di noi: suoni, sensazioni, pensieri, emozioni. Niente a che vedere con pratiche strane, visualizzazioni mistiche o stati di coscienza più o meno alterati. La meditazione zen è un semplice e puro essere presenti a sé stessi. Un allenamento a essere proprio lì dove siamo, e nel momento in cui ci siamo.

 Erroneamente, si pensa che il maestro che guida una sessione meditativa abbia il compito di elargire perle di saggezza. Guidare i praticanti, invece, è far loro scoprire ed essere consapevoli del momento che stanno vivendo. Secondo gli scienziati la meditazione può aiutare a controllare meglio di dolore dovuto a disturbi cronici o ricorrenti, limitando l’uso di medicinali, soprattutto se il dolore non è troppo intenso o acuto. In particolare meditare può essere utile per combattere il fastidio dovuto alla sindrome del colon irritabile. Questo disturbo è in molti casi psicosomatico, perché legato all’ansia e a un’iperattivazione del sistema nervoso.

 La meditazione può, poi, essere utile contro la cefalea, specialmente quelle muscolo-tensive causate da eccessive rigidità del collo e della schiena. La respirazione lenta e profonda indotta dalla meditazione infatti rilassa spontaneamente i muscoli allentando le tensioni localizzate: quindi previene gli attacchi di mal di testa oltre ad aiutare ad avvertire meno dolore.

 Gli esercizi di meditazione vanno eseguiti in un ambiente calmo e tranquillo che favorisca la concentrazione. Anche gli abiti devono essere comodi, senza cinture o bottoni che stringano troppo o impediscano una respirazione profonda. Una seduta di meditazione dura in genere dai 30 ai 45 minuti. Anche se semplici, gli esercizi, per essere davvero utili devono essere appresi con l’aiuto di un esperto, che può guidare e insegnare la giusta respirazione.

 In Italia esistono centri zen affidabili, il consiglio è di diffidare dagli ambienti eccessivamente mistici o dagli istruttori guru. Non esiste un termine all’apprendimento, ma per imparare la tecnica possono bastare poche sedute. Un paio di mesi di pratica quotidiana permettono di acquisire dimestichezza e sperimentare alcuni effetti.

mercoledì 9 novembre 2016

Tormentoni musicali ritornello nel cervello


Vi è entrato un ritornello nel cervello e non riuscite più a togliervelo dalla testa? Ecco quali sono i segreti dei tormentoni musicali e come fare a liberarsi delle canzoni che non se ne vanno più dalla mente



 Avete presente quando ascoltate un brano e non riuscite più a togliervelo dalla testa? Lo stesso celebre neurologo Oliver Sacks nel suo libro Musicofilia parlava dell’esistenza di agenti musicali cognitivamente infettivi. Sarà che in questi tempi per ragioni di mercato o culturali i cosidetti earworms o tormentoni musicali sono sempre più frequenti, ma molti neuroscienziati stanno cercando di svelarne segreti.

 C’è chi pensa che per non essere colpiti da quelli che vengono definiti dagli scienziati anche come bachi musicali, la prima regola da rispettare sia stare lontani dalla musica pop più banale, insomma dai cosiddetti tormentoni musicali, che pure svelano le loro intenzioni ancora prima dell’ascolto ed infatti hanno successo. Ma non è così semplice. Oramai la musica ci colpisce ovunque, in ogni luogo e ora della giornata, per strada al supermercato e al lavoro. Così tempo fa uno studio pubblicato sul British Journal of Psychology non solo analizzava brani ripetitivi, ma spiegava anche come liberarsene.
Cosa sono i tormentoni musicali?

 Per iniziare studiare il fenomeno gli studiosi avevano avevano interpellato 100 persone a caso nella sala d’aspetto della stazione dei treni di Reading. Risultato: tra il 97 e il 99% degli intervistati erano stati colpiti dal fenomeno: chi era stato “infettato” con la musica degli spot, chi con una sigla tv, chi con l’ultima canzone di successo. I tormentoni musicali possono essere anche il ritornello di una filastrocca di Natale o un canto per bambini. Insomma, impossibile starne alla larga, meglio capire di cosa si tratta.

Tormentoni nella musica pop

 In tempi più recenti la rivista APA journal Psychology of Aesthetics ha pubblicato uno studio cercando di capire perchè alcune canzoni si insinuano nella mente più di altre. Quali sono lecaratteristiche dei tormentoni musicali? La risposta è abbastanza semplice.

 Gli earworms di solito hanno un ritmo veloce, una melodia facile da ricordare ma che si distingue per avere intervalli particolari, magari come salti o ripetizioni e suoni che li rendono unici nel loro genere e che li distinguono da una canzone qualsiasi. Tra questi speciali brani sono compresi ad esempio Bad Romance di Lady Gaga o Can not Get You Out Of My Head di Kylie Minogue. Noi più modestamente potremmo inserire Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi: che ne pensate?

 Certamente avrete sentito questo brano centinaia di volte cantato da grandi e piccini di tutti i generi ed età. Stabilite voi se ha tutte le carte in regola per essere definito come un baco musicale. C’è anche da dire che in generale le canzoni con queste caratteristiche, grazie all’intuito dei dj, diventano tormentoni musicali anche perchè vengono trasmessi dalle radio con maggiore frequenza, aumentando così la loro onda d’urto sul cervello umano.
Come scacciare i tormentoni

 Per scacciare la melodia invasiva dal cervello di solito le persone tendono più che altro a fare finta di niente, dandosi da fare in varie attività come lavoro, meditazione, movimento, sport. Tutte strategie, spiegano i ricercatori, destinate all’insuccesso. I tormentoni musicali vanno probabilmente a depositarsi nei meccanismi della memoria a lungo termine, per cui ogni tentativo di scacciarli dalla testa è inutile.

 Potrebbe servire distrarsi pensando ad un altro brano, o addirittura affrontare la canzone di petto, magari imparandola tutta a memoria. In ogni caso non è mai un gran problema, visto che i tormentoni musicali in generale se ne vanno da soli dopo un paio di giorni di silenzio. Due giorni sono comunque un tempo molto maggiore rispetto a quello della nostra memoria uditiva, la memoria che consente di ripetere consapevolmente un brano precedentemente ascoltato. Come per ogni pensiero ossessivo quindi è meglio fare finta di niente: il baco musicale passerà da sè.

martedì 8 novembre 2016

La meditazione dimezza il rischio di infarti e ictus


di m.c.


 Meditare per migliorare la salute del cuore. Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Medical College of Wisconsin di Milwaukee (Usa) ha scoperto che tra le persone con disturbi di cuore la meditazione può dimezzare gli infarti, gli ictus e i casi di mortalità. La ricerca, pubblicata su Circulation: Cardiovascular Quality and Outcomes, una delle riviste dell'American Heart Association, spiega che la tecnica di meditazione presa in considerazione è la meditazione trascendentale: uno dei tipi di meditazione più conosciuti e facili da mettere in pratica, in grado di rimuovere lo stress e la fatica con sedute giornaliere da 20 minuti.

 Dallo studio, condotto su 201 persone di 59 anni di età media e con un indice di massa corporea medio di 32, e quindi «clinicamente obese», è emerso che coloro che praticavano costantemente questo tipo di meditazione avevano il 48% in meno di probabilità di subire un attacco di cuore, un ictus o di morire (per cause diverse, non solo legate ai disturbi cardiovascolari) rispetto a coloro che avevano frequentato un corso di educazione alla salute della durata di 5 anni basato su attenzione alla dieta e all'esercizio fisico giornaliero.

 I parametri sul benessere dei partecipanti allo studio sono stati misurati prima dell'inizio della ricerca, e poi ogni tre mesi: dai risultati è anche emerso anche che chi pratica la meditazione ha la pressione sanguigna più bassa e livelli inferiori di stress e rabbia, e che più regolarmente i pazienti meditano, più aumentano i loro tassi di sopravvivenza. In particolare, entrambi i gruppi hanno mostrato una diminuzione nel consumo di alcol, e il gruppo di meditazione ha mostrato anche una tendenza ridotta verso il fumo.

lunedì 7 novembre 2016

Stai con chi combatterà per starti accanto ogni giorno


di Liane White


Stai con chi combatterà per starti accanto ogni giorno

 In mezzo a quell'oceano di volti, posto di fronte a innumerevoli alternative e infinite possibilità, è te che ha scelto. Dopo un istante d'attrazione immediata, l'effimera sensazione d'affinità e quella fuggevole ricerca dell'amore che solitamente s'associa all'esperienza contemporanea del corteggiamento, lui sa già che è te che stava cercando. Non c'è esitazione, dubbio o piano B. È di te che si è innamorato. Hai rapito ogni suo pensiero.

 Quando si sveglia al mattino è a te che pensa, e prima d'addormentarsi sei l'ultima cosa che gli passa per la testa. Non ti ha relegato in un angolo, ti ha messo al centro della sua vita. Non ti ha messo su di un piedistallo, ma ti vede e ti ama per ciò che sei, se non di più. Se sta con te non è per noia, solitudine o una qualsiasi ulteriore ragione, ma solo perché ti ama.

Stai con chi s'impegnerà a dimostrarti quanto conti per lui. Non ci saranno motivi di confusione, fraintendimenti o zone grigie.

 Ogni giorno sarà presente, a dimostrazione della serietà dei sentimenti che prova nei tuoi confronti. Nella tua vita la sua sarà una presenza talmente forte che non avrai neanche il tempo di pensare che ti manca. Ti avrà donato il suo cuore nel modo più assoluto, e ti spiegherà risolutamente come tu per lui sia l'unica e la sola.

 Quando ti porterà nei suoi luoghi preferiti non lo farà per far colpo su di te, ma perché vorrà vedere un sorriso felice sul tuo volto. Ti racconterà tutto ciò che c'è da sapere sul suo conto, se non di più. Vorrà sapere tutto di te, e così vi scambierete i segreti più reconditi delle vostre anime.

Stai con chi lotterà per te in quei momenti difficili. Quando la luce s'offuscherà, svaniranno gli arcobaleni, e caleranno le notti più lunghe e più buie.

 Lui non s'accontenterà mai del tuo silenzio, e te ne verrà a chiedere il perché. Ti correrà dietro quando scapperai via nel bel mezzo di una discussione. Si batterà per te anche quando ti convincerai che non meriti di stare con lui. Abbatterà i tuoi muri per mostrarti che non c'è niente di cui avere paura.

 Il suo amore è sconfinato e irrefrenabile. Per dimostrarti la sua sincerità sarebbe disposto a seguirti fino in capo al mondo. Vuole amarti fino alla fine del tempo, per tutta l'eternità e oltre. Quali che siano le nubi che s'addensano all'orizzonte, non concepisce l'idea che fra voi possa finire.

Stai con qualcuno che lotterà per esser tuo pari. Il tuo compagno di battaglia, il tuo partner e il tuo migliore amico.

 Quando vorrai andartene via, ti terrà per mano pronto a fuggire con te da questo trantràn. In sua compagnia il mondo sfumerà. La vita è una grande avventura. Il sole brilla più intenso. Respiri meglio. E il tuo cuore è colmo d'amore e felicità.

 Lui ti consola e ti dà grande conforto di fronte alla dura realtà della vita. È il faro luminoso che ti guida in un porto sicuro nei momenti più rischiosi. T'incoraggia a impegnarti di più e t'ispira a raggiungere vette più elevate.

Stai con chi si batterà per te perché hai promesso che quando un giorno lo troverai farai lo stesso per lui.

 Meriterà il tuo affetto, il tuo impegno e l'attesa. Fino ad allora, non ti accontentare di niente di meno.


Questo post è stato pubblicato su HuffPostUsa ed è stato tradotto di Stefano Pitrelli

venerdì 4 novembre 2016

La nostra memoria è 10 volte più potente di quello che pensiamo. Un gruppo di neuroscienziati ne misura la portata per la prima volta


Un gruppo di neuroscienziati ne misura la portata per la prima volta

di Ilaria Betti


 Pari a un milione di gigabyte, l'equivalente di circa 31,250 iPhone 7s da 32 GB: è questa la capacità di memoria del cervello umano, calcolata da un gruppo di neuroscienziati per una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista "eLife". Secondo lo studio, la nostra mente sarebbe in grado di memorizzare una quantità di informazioni di almeno 10 volte superiore rispetto a quella che, fino ad oggi, abbiamo creduto potesse immagazzinare. "È una scoperta bomba nel campo delle neuroscienze", ha commentato uno dei ricercatori, Terry Sejnowski del Salk Institute for Biological Studies, in California.

 "Le nuove misurazioni della capacità di memoria del cervello che abbiamo effettuato aumentano le stime conservative di un fattore 10 - ha aggiunto -. Siamo intorno almeno a un petabyte (un milione di GB), una dimensione approssimativamente simile all’intero World Wide Web", ha spiegato il neuroscienziato.

 Sejnowski e il suo team hanno ricostruito in 3D l'ippocampo di un ratto, ossia quell'area del cervello comunemente associata alla memoria a lungo termine. Usando algoritmi e tecniche microscopiche, i ricercatori sono poi passati a ricostruire le sinapsi a livello nanomolecolare, studiandole nel dettaglio, come mai prima d'ora. Dall'osservazione è emerso che le sinapsi, anche nell'arco di pochi minuti, possono variare la loro dimensione, dando vita a ben 26 categorie diverse. Se fino ad oggi erano classificate solo come piccole, medie o grandi, i neuroscienziati hanno scoperto che, al contrario, esistono differenze tra loro che, pur essendo solo dell'8%, significano molto. Proprio questa complessità nelle dimensioni sinaptiche, secondo i neuroscienziati, si tradurrebbe in una spinta enorme nella capacità di memorizzazione del cervello.

 La ricerca è ricca di implicazioni e richiede ulteriori approfondimenti: è importante tenere a mente che è stata condotta solo usando come modello il cervello dei ratti, ma, in futuro, potrà e dovrà essere condotta anche agli esseri umani. Gli studiosi, comunque, si dicono soddisfatti: "Nascosto dietro l'apparente caos e disordine del cervello c'è la precisione delle forme e delle dimensioni delle sinapsi", ha spiegato ancora l'autore. Proprio come delle macchine, ma più complessi e flessibili, i nostri cervelli, dunque, possono immagazzinare una quantità di informazioni che, fino ad oggi, era inimmaginabile.

giovedì 3 novembre 2016

Così la meditazione ti aiuta contro la depressione


La conferma delle neuroscienze sugli effetti sul cervello di una pratica millenaria

di Nicla Panciera


 La nuova conferma degli effetti sul cervello della meditazione viene dall’Università di Oxford: essa si è dimostrata un’efficace arma per combattere le ricadute dopo una depressione. 

 I ricercatori si sono concentrati su pazienti curati con successo e andati incontro ad una terapia, chiamata «Mindfulness Based Cognitive Therapy» (MBCT), che in un certo senso combina la terapia cognitiva con la meditazione, insegnando a riconoscere lo schema di funzionamento della propria mente e dei propri pensieri, al fine di rispondere in modo costruttivo ad eventuali spirali di negatività verso il basso. 

 Dallo studio, apparso su Jama Psichiatry , è emerso che seguire questa terapia riduce del 23% il rischio di ricadute, anche in caso di sospensione dei farmaci antidepressivi. Si tratta della cosiddetta «farmacoterapia di mantenimento», necessaria contro gli episodi di recidiva che sono sempre in agguato, colpendo quattro pazienti su cinque. 

 Analizzando 1200 pazienti con depressione grave di nove trial clinici, condotti nel Regno Unito, Canada, Svizzera, Belgio e Olanda, i ricercatori hanno visto che, tra coloro che avevano seguito la terapia MBCT (sessioni di gruppo di due ore a settimana per due mesi e un’intera giornata alla quinta settimana), il 38% aveva una ricaduta entro 60 settimane di follow up, contro il 49% di coloro che non erano andati incontro a questo tipo di terapia. 

 Chi aveva meditato aveva il 31% di probabilità in meno di recidiva durante la 60 settimane di follow-up rispetto agli altri. Ottimisti gli scienziati, per i quali l’eterogeneità dei soggetti studiati, diversi per età, sesso, età di comparsa della depressione e livello di educazione, suggerisce che questo approccio, pur non essendo una panacea, possa essere utile per un’ampia gamma di pazienti, tanto da suggerirlo come efficace scelta terapeutica in aggiunta o in alternativa ad altri approcci. 

 «Questi risultati non devono meravigliare, la “minduflness” è oramai piuttosto diffusa e crescente è il numero di evidenze scientifiche in favore dei suoi effetti sull’organismo» spiega Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università di Trento e responsabile scientifico di «Neocogita», azienda per lo sviluppo di applicazioni e strumenti informatici per il benessere della mente e del cervello. 

 «Il meccanismo è il seguente: meditare provoca una riduzione del rimuginio, quell’attività di pensiero ripetitiva che porta a rielaborare negativamente gli eventi passati e, quando si rivolge al futuro, costringe il soggetto a pensare e ripensare senza sosta al possibile svolgimento degli eventi che verranno, preoccupandosi per le minacce che percepisce incombenti». 

 Ancora permane una certa confusione, anche tra gli scienziati, sull’uso della parola «mindfulness», termine molto vasto che indica numerose tecniche diverse di meditazione. Tuttavia, gli studi neuroscientifici sugli effetti di una tale pratica millenaria sono piuttosto recenti: è del 2010 lo studio apparso su Science sul mind wandering, quel lasciar vagare la mente che coinvolge una rete neurale chiamata Default Mode Network (DMN) costituita da aree del lobo temporale, della corteccia mediale prefrontale e della porzione posteriore della corteccia del cingolo, associate alla riflessione e all’introspezione (resting state). 

 L’attivazione della DMN si inibisce bruscamente non appena smettiamo di vagabondare con la mente, spegniamo il «film» che abbiamo in testa e ci concentriamo su qualunque compito esterno a noi. Quel primo studio mostrava che questa attività mentale impegna la maggior parte della nostra vita da svegli ma tale costante rielaborazione su quanto è accaduto e quanto potrebbe accadere viene vissuto come negativo. 

 Ebbene, «le aree cerebrali coinvolte in quest’attività sono meno attive in chi medita, anche nei momenti in cui non sta meditando» spiega De Pisapia. E questo è molto importante se si pensa che, nel rimuginio, la mente non è più libera di vagare, ma rimane impantanata in alcuni pensieri negativi, e ciò è vero tanto più quando si passa ad una situazione patologica come nella depressione. 

 «Con la meditazione si impara ad impedire che il progressivo peggioramento dell’umore porti ad una ricaduta». In che modo? Attraverso una sorta di «ristrutturazione» dei circuiti neurali coinvolti. «La “mindfulness meditazione” è un esercizio della consapevolezza di come riempiamo il nostro spazio mentale» spiega lo scienziato cognitivo, grande esperto di buddismo. «Imparando a regolare la nostra attenzione concentrandola sul respiro (focus meditation) e sulla struttura dei nostri pensieri (insight meditation), ma ignorandone il contenuto, è possibile essere più consapevoli dei meccanismi di funzionamento del pensiero e autoregolarli». L’allenamento è importante, tuttavia si è visto che la meditazione riduce fin da subito l’attivazione delle aree del rimuginio.