giovedì 3 novembre 2016

Così la meditazione ti aiuta contro la depressione


La conferma delle neuroscienze sugli effetti sul cervello di una pratica millenaria

di Nicla Panciera


 La nuova conferma degli effetti sul cervello della meditazione viene dall’Università di Oxford: essa si è dimostrata un’efficace arma per combattere le ricadute dopo una depressione. 

 I ricercatori si sono concentrati su pazienti curati con successo e andati incontro ad una terapia, chiamata «Mindfulness Based Cognitive Therapy» (MBCT), che in un certo senso combina la terapia cognitiva con la meditazione, insegnando a riconoscere lo schema di funzionamento della propria mente e dei propri pensieri, al fine di rispondere in modo costruttivo ad eventuali spirali di negatività verso il basso. 

 Dallo studio, apparso su Jama Psichiatry , è emerso che seguire questa terapia riduce del 23% il rischio di ricadute, anche in caso di sospensione dei farmaci antidepressivi. Si tratta della cosiddetta «farmacoterapia di mantenimento», necessaria contro gli episodi di recidiva che sono sempre in agguato, colpendo quattro pazienti su cinque. 

 Analizzando 1200 pazienti con depressione grave di nove trial clinici, condotti nel Regno Unito, Canada, Svizzera, Belgio e Olanda, i ricercatori hanno visto che, tra coloro che avevano seguito la terapia MBCT (sessioni di gruppo di due ore a settimana per due mesi e un’intera giornata alla quinta settimana), il 38% aveva una ricaduta entro 60 settimane di follow up, contro il 49% di coloro che non erano andati incontro a questo tipo di terapia. 

 Chi aveva meditato aveva il 31% di probabilità in meno di recidiva durante la 60 settimane di follow-up rispetto agli altri. Ottimisti gli scienziati, per i quali l’eterogeneità dei soggetti studiati, diversi per età, sesso, età di comparsa della depressione e livello di educazione, suggerisce che questo approccio, pur non essendo una panacea, possa essere utile per un’ampia gamma di pazienti, tanto da suggerirlo come efficace scelta terapeutica in aggiunta o in alternativa ad altri approcci. 

 «Questi risultati non devono meravigliare, la “minduflness” è oramai piuttosto diffusa e crescente è il numero di evidenze scientifiche in favore dei suoi effetti sull’organismo» spiega Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università di Trento e responsabile scientifico di «Neocogita», azienda per lo sviluppo di applicazioni e strumenti informatici per il benessere della mente e del cervello. 

 «Il meccanismo è il seguente: meditare provoca una riduzione del rimuginio, quell’attività di pensiero ripetitiva che porta a rielaborare negativamente gli eventi passati e, quando si rivolge al futuro, costringe il soggetto a pensare e ripensare senza sosta al possibile svolgimento degli eventi che verranno, preoccupandosi per le minacce che percepisce incombenti». 

 Ancora permane una certa confusione, anche tra gli scienziati, sull’uso della parola «mindfulness», termine molto vasto che indica numerose tecniche diverse di meditazione. Tuttavia, gli studi neuroscientifici sugli effetti di una tale pratica millenaria sono piuttosto recenti: è del 2010 lo studio apparso su Science sul mind wandering, quel lasciar vagare la mente che coinvolge una rete neurale chiamata Default Mode Network (DMN) costituita da aree del lobo temporale, della corteccia mediale prefrontale e della porzione posteriore della corteccia del cingolo, associate alla riflessione e all’introspezione (resting state). 

 L’attivazione della DMN si inibisce bruscamente non appena smettiamo di vagabondare con la mente, spegniamo il «film» che abbiamo in testa e ci concentriamo su qualunque compito esterno a noi. Quel primo studio mostrava che questa attività mentale impegna la maggior parte della nostra vita da svegli ma tale costante rielaborazione su quanto è accaduto e quanto potrebbe accadere viene vissuto come negativo. 

 Ebbene, «le aree cerebrali coinvolte in quest’attività sono meno attive in chi medita, anche nei momenti in cui non sta meditando» spiega De Pisapia. E questo è molto importante se si pensa che, nel rimuginio, la mente non è più libera di vagare, ma rimane impantanata in alcuni pensieri negativi, e ciò è vero tanto più quando si passa ad una situazione patologica come nella depressione. 

 «Con la meditazione si impara ad impedire che il progressivo peggioramento dell’umore porti ad una ricaduta». In che modo? Attraverso una sorta di «ristrutturazione» dei circuiti neurali coinvolti. «La “mindfulness meditazione” è un esercizio della consapevolezza di come riempiamo il nostro spazio mentale» spiega lo scienziato cognitivo, grande esperto di buddismo. «Imparando a regolare la nostra attenzione concentrandola sul respiro (focus meditation) e sulla struttura dei nostri pensieri (insight meditation), ma ignorandone il contenuto, è possibile essere più consapevoli dei meccanismi di funzionamento del pensiero e autoregolarli». L’allenamento è importante, tuttavia si è visto che la meditazione riduce fin da subito l’attivazione delle aree del rimuginio. 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.