L’ultimo libro della psicologa americana Sherry Turkle mette in guardia dall’abuso di dispositivi mobili. Che eternano la connessione e ci rendono meno capaci di entrare in contatto con gli altri. E con noi stessi
di Fabio Deotto
Dal numero di pagina99 in edicola il 24 settembre 2016
Sulle colline di Mendocino, nel nord della California, incastonato in un bosco di sequoie c’è un campo estivo in cui le persone pagano quasi 600 dollari a weekend per liberarsi dei propri telefonini. Camp Grounded è uno spazio sicuro per chi cerca una vacanza lontano da email, messaggini, telefonate e notifiche social, una sorta di clinica di disintossicazione per maniaci della connessione: essere sempre online – questo il messaggio che emerge tra le righe della brochure – significa disimparare a rapportarci in modo autentico con gli altri e, per certi versi, anche con noi stessi.
Questa è la tesi al centro del nuovo libro di Sherry Turkle, La conversazione necessaria (Einaudi, pp. 456, euro 26), in cui la psicologa americana riprende le fila di un discorso iniziato con Insieme, ma soli (Codice, 2011), concentrandosi questa volta su una pratica sociale sempre più sottovalutata. La tecnologia mobile è diventata ormai talmente presente nelle nostre vite che spesso non riusciamo a finire una chiacchierata senza estrarre di tasca il telefonino, alle conversazioni vis-à-vis tendiamo a preferire messaggi digitali (su cui abbiamo maggiore controllo) e invece di concentrarci su un solo interlocutore teniamo aperte decine di scambi in un continuo multitasking.
Tutto questo – si chiede Turkle – sta riducendo le nostre capacità empatiche? I dati suggeriscono di sì. In uno studio condotto presso la Ucla da Yalda T. Uhls, due gruppi di ragazzini tra gli 11 e i 13 anni sono stati sottoposti a un esperimento: i primi avevano passato cinque giorni in un posto simile a Camp Grounded, i secondi erano rimasti a contatto con televisione, internet e videogiochi. A un successivo test per la valutazione delle capacità empatiche, i ragazzini del primo gruppo dimostravano un’abilità significativamente maggiore ad associare l’espressione facciale di un volto a una specifica emozione.
Secondo Turkle, la spiegazione di questo risultato è semplice: i bambini imparano a rapportarsi agli altri osservando le reazioni alle proprie parole sul viso dell’interlocutore e modulano di conseguenza il proprio tono di voce, la mimica facciale e la gestualità. Fornire a un bambino un surrogato digitale della conversazione, dunque, può comprometterne la capacità di esprimersi e di comprendere le emozioni altrui. Si tratta di una questione cruciale, considerando che l’età media in cui una persona inizia a utilizzare un cellulare si sta abbassando di anno in anno (stando uno studio intitolato Exposure and Use of Mobile Media Devices by Young Children, un neonato su sette utilizza lo smartphone per almeno un’ora al giorno già nei primi dodici mesi di età).
Qualcuno, come il sociologo Nathan Jurgenson, liquida le argomentazioni di Turkle come gli schiamazzi di una «disconnectionist», una sorta di neo-luddista in chiave mobile affetta da un irragionevole catastrofismo. Dopotutto – obietta Jurgenson nel suo articolo Fear of Screens, apparso sul New Inquiry lo scorso gennaio – non è la prima volta che una tecnologia viene scomunicata in quanto potenzialmente alienante: l’automobile e la televisione sono agenti di isolamento sociale, eppure la nostra architettura relazionale è ancora intatta; il sociologo, inoltre, aggiunge che i parametri con cui gli studi citati da Turkle pretendono di valutare i livelli di empatia non sono del tutto attendibili: «In fondo cos’è davvero l’empatia? Se non è possibile darne una definizione precisa, a che scopo allora provare a misurarla?».
Le obiezioni di Jurgenson, tuttavia, per quanto mirate, non convincono: l’automobile e la televisione forniscono un’alternativa al contatto sociale, non un surrogato, come invece accade con gli smartphone; inoltre, per comprendere come un utilizzo incontrollato dei dispositivi mobili possa incidere sulle nostre abilità empatiche, è sufficiente qualche fondamento di neuropsicologia, e un po’ di buon senso. Sappiamo, dalle indagini condotte da Albert Mehrabian, che quando si tratta di comunicare i propri sentimenti la componente verbale incide per una percentuale molto bassa rispetto a quelle non verbali (espressioni del viso, voce, postura, eccetera).
Ricerche condotte indipendentemente da Jean Decety, Frans De Waal e Vittorio Gallese hanno dimostrato il ruolo cruciale dei neuroni specchio (quelli che si attivano sia quando un individuo compie un’azione, sia quando osserva un altro individuo compierla) nella comprensione delle emozioni altrui. Infine, in uno studio finanziato dalla University of Essex, Andrew K. Przybylski ha mostrato come la semplice presenza di uno smartphone sia sufficiente a compromettere la qualità di una conversazione: gli interlocutori sanno di poter essere interrotti in qualsiasi momento, e tendono a dirottare su argomenti leggeri che richiedono poca attenzione.
Prendere atto dei dati forniti da Turkle non significa prepararsi a dire addio alla tecnologia, significa piuttosto dotarsi degli strumenti necessari a un utilizzo consapevole della stessa. Oggi i telefonini sono diventati un facile antidoto alla noia, un serbatoio di gratificazione pronto all’uso (ricevere notifiche social produce un rilascio di dopamina analogo al fumo di sigaretta o al gioco d’azzardo), ma soprattutto un modo per non rimanere mai soli con noi stessi. Trent’anni di ricerche sulla connettività funzionale intrinseca hanno dimostrato come i momenti di noia e di solitudine siano fondamentali: quei buchi di tempo che cerchiamo forsennatamente di tappare sono gli unici momenti in cui il nostro cervello “conversa” con se stesso, riorganizzando i ricordi autobiografici e le nuove informazioni apprese; è in quegli intervalli di vuoto che riflettiamo su noi stessi, sulle nostre azioni, sulle nostre emozioni.
Ed è questo il vero paradosso su cui vale la pena concentrarsi: la tecnologia dovrebbe aiutarci a connetterci più facilmente con gli altri, utilizziamo dispositivi connessi in maniera compulsiva illudendoci di avere sempre più amici, eppure le nostre abilità empatiche vanno peggiorando, ci sentiamo sempre più isolati, e allo stesso tempo meno capaci di rimanere soli con i nostri pensieri. In altre parole: meno capaci di capire chi siamo e chi vogliamo essere.